Mea Culpa, la recensione

Mea Culpa incrocia con mestiere legal drama ed erotismo, offrendo una valida alternativa a saghe come 365 giorni.

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La recensione di Mea Culpa, il nuovo film diretto da Tyler Perry, in streaming su Netflix dal 23 febbraio.

Se c’è una cosa che al cinema non smetterà mai di funzionare è il fascino del cattivo. Ribelli, bad boy o anche peggio, c’è un fascino connaturato a chi non segue le regole che ne fa un soggetto irresistibile per narrazioni romantiche o erotiche. Dal Cary Grant de Il sospetto di Hitchcock al Loki di Tom Hiddleston, antieroi e villain hanno sempre fatto battere il cuore e solleticato le fantasie del pubblico; tanto più se c’è di mezzo l’ambiguità, un uomo apparentemente innocente che sembra covare un oscuro segreto. Mea Culpa di Tyler Perry prende questa tradizione di cattivi affascinanti e la ibrida col dramma giudiziario, mettendoci nei panni di un’avvocata (Kelly Rowlands) che inizia a provare attrazione per l’uomo che è incaricata di difendere (Trevante Rhodes), un artista accusato di avere ucciso la sua ragazza.

In un certo senso, Mea Culpa si inserisce nella stessa tradizione di erotica softcore che di recente ci ha dato le famigerate saghe di 50 sfumature di grigio e 365 giorni,quest’ultima a sua volta un prodotto Netflix. Il terreno su cui gioca è più o meno quello, la Bella che si fa sedurre dalla Bestia tentando di addomesticarla e farne “husband material”. Senza essere particolarmente più ambizioso o più audace nella rappresentazione del sesso, il film di Perry è però molto più capace di giocare coi meccanismi del genere, sia l’erotico sia il thriller, divertendosi a sguazzare nel torbido e rivelando una solidità nei dialoghi e nella costruzione dei personaggi che testimonia l’esperienza di un veterano della tv e del teatro americano.

A tratti l’impressione è proprio quella di assistere a una pièce teatrale: pochi ambienti (lussuosissimi), pochi personaggi (molto stilizzati) e un gusto evidente per la battaglia verbale, le chiuse brillanti, i complimenti velenosi dell’alta società. Il tutto in una chiave mai sofisticata ma volutamente popolare, quasi da soap opera di un’ultra-borghesia nera e ispanica di attori e attrici potentissimi, con visi e corpi da modelli, al riparo da qualunque pretesa di realismo. Un cinema quindi totalmente disimpegnato, divertito e divertente, che non riappacificherà Perry con la sua nemesi Spike Lee,ma che costituisce un’alternativa sicuramente più valida di altre per chi cerca un prodotto di genere in grado di fare il suo lavoro onestamente.

Più di questo non è il caso di chiedergli, anche se qua e là la voglia di “dire qualcosa” emerge. C’è una rappresentazione abbastanza tossica della famiglia americana, in particolare dei rapporti disfunzionali tra figli maschi e madri/matriarche - tema che attraversa un po’ tutta la produzione di Perry. E c’è un discorso in filigrana sulla difficoltà di noi pubblico a sospendere il giudizio quando l’artista di turno si trova sotto accusa, o all’opposto sul fascino perverso di cui l’idea del crimine ammanta la sua opera. Niente che vada oltre lo spunto superficiale, ma per fortuna Mea Culpa ha la leggerezza e l’intelligenza di non prendersi mai troppo sul serio. E va bene così.

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