Master, la recensione

La storia di tre donne afroamericane è il racconto del passato razzista sepolto che è pronto ad emergere come l'ipocrisia dei bianchi post-razzisti

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Master, disponibile su Prime Video il 18 marzo

Il dettaglio più rivelatore di Master arriva quando scopriamo che la protagonista (afroamericana) sì è stirata i caratteristici capelli crespi che invece avrebbe, una volta entrata in un college noto per essere frequentato quasi solo da bianchi. Voleva integrarsi e aveva paura di sembrare troppo afro. Lì sì capisce come a Master non interessi per niente l’effettiva paura, non gli interessa fare bene l’horror e anche la maniera in cui mette in relazione vittima, persecuzione e apparizioni, è generica se raffrontata all’impianto invece formalmente curatissimo che domina in tutte le sue altre parti. È semmai un "afro-horror", quel genere reso famoso (e di moda) da Jordan Peele, in cui la condizione degli afroamericani in un mondo post-razzista (quello in cui la dinamiche soggioganti tra etnie non sono scomparse ma sono nascoste) è raccontata attraverso una trama fantastica che fa da metafora alle reali oppressioni.

Nello specifico quello scritto e diretto da Mariama Diallo è proprio un film di donne afroamericane che ha senso davvero quando racconta loro più di quando paga il tributo dovuto al genere di appartenenza con scene di tensione di dubbia efficacia.
Le donne sono 3: una studentessa appena arrivata in un college rinomato per essere quasi totalmente bianco che si confronta con una maledizione (nella sua stanza decenni fa è morta una persona); una professoressa di letteratura molto concentrata sulle questioni razziali che sta per diventare di ruolo (ma qualcosa nel suo passato potrebbe impedirglielo); un’altra docente che invece ha da poco assunto un ruolo più importante e di rilievo e per questo si è trasferita a vivere nel college, in un’abitazione che nasconde molto nel suo passato.

Come è evidente (e come spesso avviene nell’afro-horror) è proprio il passato razzista dell’America è il sommerso nascosto che riemerge assieme alle dinamiche di paura, ci sono colpe ataviche malsepolte che vengono scoperte e sono la metafora di un razzismo che oggi la società nasconde altrettanto male dietro la patina di inclusività. Non a caso anche qui i molti bianchi che interagiscono con le protagoniste sono democratici e hanno moltissimo a cuore l’inclusività ma questa è solo un’altra forma più lieve e ipocrita di sfruttamento. Che poi questa dinamica tra colpe passate e situazioni presenti non è diversa da quella con cui Edgar Wright parlava della posizione della donna in Ultima notte a Soho, è la maniera con la quale oggi sì fanno i conti con le cose fatte in passato e gli strascichi che rimangono.

In fondo è una storia di successo di tre donne (la studentessa è estremamente brillante) e delle difficoltà delle donne afroamericane a gestire una situazione di successo in una società che finge di promuoverlo. Il tema politico che spesso l’horror veicola sottotraccia qui è così esposto che alla fine, per stare tutti sicuri, viene sparato per bene in un monologone che possa essere compreso anche sul divano più distratto: “Non è un fantasma, non è sovrannaturale, è l’America!” si dirà ad un certo punto di avvenimenti sovrannaturali per spiegare che sono una metafora e ancora “Non può andartene. Ti seguirà!”, come lo sguardo dei bianchi e il loro atteggiamento segue le protagoniste.

Master però non si concentra sui pure non pochi elementi di fascino del suo ragionamento, ma proprio sul ragionamento in sé, sul renderlo chiaro, metterlo sotto al riflettore, sulle sue conclusioni e se poi tutta la parte horror di quest’horror patinato e dalla fotografia raffinata non gira davvero, beh pare non importi a nessuno.

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