Marvel Gold: Longshot, la recensione

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È una piacevole iniziativa quella di riproporre la miniserie originale di Longshot sugli scaffali delle fumetterie (in uscita proprio in questi giorni per la collana Marvel Gold con il titolo di X-Men: Longshot). Piacevole innanzitutto per motivi di collezionismo (le uniche edizioni italiane originali precedenti, a numeri singoli sulle testate mutanti Play Press o raccolte successivamente in un trade paperback, sempre Play, erano ormai alquanto improbabili) ma anche a livello affettivo, per riscoprire in un’epoca di scontri cosmici, guerre civili e alterazioni della realtà quanto possa essere godibile e ugualmente appassionante una storia semplice e lineare come quella di Longshot.

Innanzitutto, un po’ di coordinate: sebbene graviti da sempre nell’universo mutante Marvel e sia etichettato come X-Man, Longshot non nasce come un mutante, ma semplicemente come new entry supereroistica nel parco Marvel a metà degli anni 80, come progetto affidato a Ann Nocenti e Arthur Adams. Sarà poi Chris Claremont, l’allora nume tutelare delle saghe mutanti, rimastone affascinato, a decidere di adottare sia l’eroe che il cast dei suoi comprimari e di assorbirli nelle trame dei suoi X-Men.

Tuttavia, la saga iniziale di Longshot è concepita come storia autosufficiente e indipendente, godibile anche da chi è abbastanza a digiuno di continuity Marvel, che anzi può seguire l’amnesiaco Longshot nella sua scoperta o riscoperta dell’universo Marvel condividendone il punto di vista fresco, “profano” e ingenuo.

La trama della storia in sé è lineare e quasi archetipale: privato della memoria e caduto per caso (o esiliato?) sul nostro mondo, l’essere chiamato Longshot vaga senza una meta alla ricerca di un passato e di uno scopo. Non è l’unico della sua realtà ad essere piombato sulla terra, tuttavia, e sulla sua scia si muovono altre presenze aliene che cercano di ricatturarlo o di ucciderlo. Nel corso delle sue peregrinazioni il giovane avventuriero stringerà varie amicizie con gli abitanti terrestri e grazie anche al loro aiuto sconfiggerà progressivamente i nemici che gli danno la caccia fino a giungere allo scontro finale con i due villains portanti, Mojo e Spirale, anch’essi scesi sulla Terra seguendo la sua pista.

Un lettore degli anni 2010 deve inevitabilmente fare i conti con alcuni topoi grafici, visivi e caratteriali che ne denunciano l’appartenenza a un’epoca passata, nonché con i venti e passa anni di storie successive, che non sempre hanno trattato bene il mondo di Longshot e i suoi comprimari. Tuttavia, sotto la carrozzeria graffiata e qualche ammaccatura riportata lungo il percorso, il fascino della storia originale è ancora intatto.

Resta appassionante l’idea di creare un eroe e una storia dal taglio prettamente “swashbuckling” ma che nel contempo si allontani dall’archetipo del protagonista cinico, esperto e avvezzo a ogni forma di corruzione. Precorrendo di almeno un decennio quelli che sarebbero stati i temi portanti di una pellicola come Matrix (il risveglio a una nuova vita, la missione di portare consapevolezza a un popolo di simili che non sa di essere schiava, la lotta contro un sistema ipertecnologico che controlla ogni aspetto della vita delle masse), la Nocenti restituisce al protagonista un alone di purezza e di innocenza che costituisce la sua arma migliore nell’affrontare le sfide di un mondo che, almeno in apparenza, dovrebbe muoversi su meccaniche e principi assai diversi da quello da cui proviene. Questo andirivieni tra i due mondi, le molte differenze appariscenti tra di essi e le altrettanto numerose affinità meno evidenti che li accomunano è uno dei temi portanti della storia, e da questo punto di vista sono particolarmente funzionali le tavole di Arthur Adams che, se nelle scene ambientate nel Mojoverso può sbizzarrirsi con linee, colori e visuali vertiginose, non disdegna di dipingere anche il mondo “normale” a tratti surreali, intensi, a volte spiazzanti, quasi a sottolineare che l’assurdità della nostra terra non è poi così diversa da quella del bislacco mondo di Mojo.

Oltre a Longshot vale la pena di esaminare brevemente gli altri personaggi che calcano il sipario. Al Dottor Strange spetta il ruolo in cui eccelle tradizionalmente, quello di mentore che guida gli altri a compiere le scelte giuste cercando di intervenire personalmente salvo quando sia strettamente necessario. La coprotagonista femminile, Rita Ricochet, lascia trapelare qualche tratto “Mary Sue” di troppo (un alter ego della stessa Nocenti che aveva una gran voglia di vivere un’avventura al fianco del suo protagonista) ma in ultima analisi svolge bene il suo ruolo di umana “risvegliata” a sua volta dall’incontro con l’esule interdimensionale. L’alieno Quark, che svolge in essenza il ruolo di “sidekick” di Longshot, non può che esserne il contraltare emotivo, contrastando il candore e l’ottimismo del primo con dosi eguali e contrarie di cinismo e di pessimismo, una figura che forse avrebbe meritato un minimo di attenzione in più nelle avventure successive di Longshot.

Un discorso a parte merita il villain principale, Mojo, che spesso ruba la scena con i suoi impeti di follia e i suoi battibecchi nevrotici con i suoi sottoposti. Il grasso dittatore interdimensionale sarà spesso ripreso da numerosi autori delle X-storie successive, ma se si eccettua qualche intuizione ispirata nelle prime storie di Claremont (come l’avventura dei Nuovi Mutanti in cui dona a Betsy “Psylocke” Braddock i suoi occhi bionici), raramente sarà colta la vera essenza del personaggio. Quasi tutte le apparizioni successive di Mojo si concentreranno sulla sua funzione umoristico-surreale (indubbiamente una componente essenziale) o sul suo ruolo di mogul mediatico e televisivo, rendendolo tuttavia spesso sconclusionato e, nel peggiore dei casi, privandolo anche del senso di minaccia in cui invece risiede l’essenza del personaggio.

Nella miniserie di Adams e Nocenti ritroviamo invece il Mojo essenziale, quello in cui la follia è unita a un’astuzia da non sottovalutare e soprattutto a un’immane quantità di potere (il dottor Strange teme per la tenuta stessa della realtà all’arrivo di Mojo nel mondo reale), e l’aspetto mediatico-televisivo è solo uno dei tanti con cui il dittatore alieno controlla le masse (indicativa, e quasi sempre ignorata da molti, ad esempio, è la connotazione mistico-religiosa che il suo tentativo di soggiogare il pianeta assume nell’ultima fase della storia). Sarebbe più corretto, anche se forse banale, interpretare Mojo come la summa di tutti i meccanismi di controllo e di sistema globale, un’interpretazione che restituisce maggior valore sia alla ribellione dello schiavo Longshot sia all’illuminante e affascinante discorso in flashback con il creatore Arize (figura che, se si eccettua un tentativo di approfondimento nell’infelice crossover Shattershot, non è più stata recuperata e meriterebbe anch’essa ulteriori esplorazioni).

La speranza è che la riproposizione dell’opera originale sia la scintilla che consenta alla Marvel di restituirci in futuro nuovi capitoli della saga di Longshot in maggiore sintonia con l’opera iniziale. Il trattamento “Marvel Now” che sembra intenzionato a donare a molte dei personaggi che hanno vagato senza meta in questi anni una reinvenzione e una nuova collocazione nel panorama attuale, unitamente alla nuova miniserie dedicata al fortunello mutante prevista per questo inverno, lascerebbero ben sperare al riguardo. Incroceremo le dita e spereremo nella sua proverbiale fortuna.

Per l’intanto si lascia rileggere molto volentieri la sua saga di esordio, una bella e semplice storia di riscatto, rinascita, purezza delle intenzioni, amicizia e avventura.

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