Maria Per Roma, la recensione

Pieno di spunti interessanti ma incapace di trarne un racconto interessante, Maria Per Roma sembra eccessivamente interessato alla sua autrice

Critico e giornalista cinematografico


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Una giornata a Roma, d’estate, tra il traffico, il lavoro alimentare per una società che affitta appartamenti ai turisti (per la quale occorre andare ad aprire le case), il lavoro quello per vivere come attrice, forse un film che parte, una festa serale a cui partecipare, il cane che forse sta male, la mamma che non si fa una ragione della decadenza familiare, amici che nutrono sentimenti, produttori che invece paiono non averli. Come dice il titolo su tutto regnano due personaggi: Maria e Roma.

Nel film di Karen Di Porto gli ingredienti sono i medesimi di Estate Romana di Matteo Garrone (la città d’estate, il continuo spostarsi, un’attrice che si muove nel mondo della produzione) eppure siamo lontanissimi da quella maniera di inquadrare personaggi e paesaggi, siamo lontani dalla ricercatezza delle location, dalla raffinatezza delle interazioni. Siamo lontani anche dalla maniera di mettere in scena il tempo che passa enfatizzando il cambiare della luce del giorno, da quella accecante del mattino fino a quella ocra del tramonto.
Questo perché Maria Per Roma è un film abbastanza grossolano, a partire dalla recitazione incerta di tutto il cast e diretta senza personalità, in cui Karen Di Porto mette in scena se stessa senza nascondere un certo compiacimento nel narrare l’epica di quello che ha dichiarato essere il proprio vissuto.

Da questo dato personale il film non riesce a mai elevarsi, a fare un discorso universale, le piccolezze della vita di Maria non diventano mai le nostre, non rispecchiano mai quelle di tutti, non lasciano spazio a qualcosa di più grande, non riescono nemmeno ad essere un piccolo pretesto per agitare un fondale.
Anche la rassegna di figure da sottobosco romano, il senso di una grande città che alterna parchi a monumenti, stradine a stradone, truffatori a uomini di successo, donne annoiate a lavoratrici piene di acciacchi, riesce ad essere inconsistente. Affiancare invece di associare.

Addirittura la componente che più di tutte poteva dare al film una forza, ovvero l’instancabile dinamismo della protagonista, costretta a fuggire da ogni impegno per giungere (in ritardo) ad un altro, animata da un’energia che pare non avere fine né poter essere fiaccata da tutti gli incontri, le delusioni e gli alterchi che ha, anche questa forza propulsiva non viene messa a frutto da un film che preferisce sempre di più un po’ di commiserazione ad un po’ di distacco, preferisce avere un’idea molto chiara sulla protagonista, assegnare colpe e assoluzioni e così levare qualsiasi interesse allo spettatore.

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