Maria, la recensione: Larraìn trova la perfezione ma perde il film

Nonostante sia uno dei film più rigorosi e formalmente impeccabili di Larraìn, Maria manca totalmente di anima e invenzioni

Critico e giornalista cinematografico


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C’è uno strano dettaglio in questi ultimi giorni della vita di Maria Callas: il Fernet Branca è ovunque. Anche nei ricordi. Più che un dettaglio filmico, si tratta con tutta probabilità di una questione produttiva che tuttavia, per vie strane, finisce per essere una buona metafora di un film impeccabile, formalmente eccezionale, che sembra realizzato più per sfruttare una buona occasione e fare un’operazione produttiva conveniente che perché al suo autore importi realmente qualcosa del personaggio o della storia.

Maria è il terzo film che Larraín dedica a donne in teoria potenti, che nella pratica non lo sono e vivono in gabbie orchestrate da uomini. Per raccontarle sceglie sempre un momento nella loro vita in cui un amore è finito, un lutto le ha colpite o comunque si interrompe il legame sentimentale con un altro uomo molto potente. Jackie, Spencer e Maria hanno in comune un lutto (reale o sentimentale) che ingabbia ancora di più le protagoniste dentro magioni iperscenografate. Anche qui, la casa parigina trabocca di dettagli espressivi che raccontano chi la abita, e questo include anche i due servitori-folletti che si muovono, alle volte anche invisibili, intorno alla protagonista, indirizzando la sua vita e decidendo per lei.

L’incastro stavolta è dato dal fatto che Maria Callas vuole morire, o meglio vuole lasciarsi morire, e i servitori, pieni di affetto e menzogne adulatorie, cercano di evitarlo. Nel farlo però perpetuano lo stato di donna ingabbiata, sebbene per gentilezza e buoni sentimenti. Il maggiordomo personale, Ferruccio (Pierfrancesco Favino), le chiama il dottore anche se lei non vuole, e lei di contro gli ordina di fare cose che gli fanno male, come spostare il pianoforte (o forse anche pasteggiare con una bottiglia di Fernet sul tavolo come fosse vino). Sono dei carcerieri amorevoli che vogliono tenerla in vita perpetuando il dolore esasperato che prova ad essere viva ma solo come Maria e non più come "la Callas", come la chiamano le sue proiezioni mentali, o "Primadonna Assoluta".

In teoria, Maria sarebbe è un film impeccabile, corretto, realizzato a livelli di professionalità eccellenti e in certi momenti quasi magistrale; nella pratica, è un film che espone un sentimentalismo da Opera (non a caso, ovviamente) molto spinto sull’idea di un amore che devasta un corpo e una vita, con conseguenze apodittiche e struggimenti vari, che tuttavia né Larraìn né tantomeno Angelina Jolie, incolore in questa prestazione, trasformano mai in sentimento. Certo, quindi, che tutto gira al meglio quando c’è la musica della Callas, perché in quei momenti questo fare operatico, esagerato e a tinte grosse trova una vera attualizzazione nella potenza della musica (che poi è il punto dell’Opera). A mancare per tutto il resto del film sono le invenzioni per le quali Larraín è noto e che costituiscono la parte esplosiva del suo stile, le idee memorabili e i guizzi fuori dal comune. Questo è invece il regno della professionalità, della camminata a pendolo di Favino che dice tutto su questo impero decadente, ma come un fuoco d’artificio isolato non va più in là della bella impressione iniziale.

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