Margin Call, la recensione
Distaccato eppur vicino, sentimentale eppur realistico. Finalmente un film che sa raccontare con gli strumenti propri del cinema la grande crisi economica americana...
E' impossibile non notare l'estrema reattività cinematografica che l'America sta dimostrando rispetto alla propria personale (ma anche mondiale) crisi economica.
Ora Margin Call arriva in sala a mettere un po' di ordine e a fornire un punto di vista a freddo, anche se è passato pochissimo dai fatti raccontati.
C'è la contrazione temporale, c'è la sineddoche del piccolo evento per raccontarne uno più grande, ci sono gli eufemismi di un mondo di ricchi che parla della crisi, la suspense, l'enfasi nazionalista e le straordinarie ironie del cinema. Certo non manca qualche grande spiegazione fatta a favore di pubblico attraverso le consuete metafore semplicistiche, ma davvero è il meno.
Con un cast di prim'ordine (Kevin Spacey, Jeremy Irons e Demi Moore a guidare la banca e il film, Stanley Tucci e fare l'outsider d'eccezione, Zachary Quinto a fare il giovane impiegato che scopre tutto e a coprodurre il film) Margin Call non risparmia in stoccate, ricordandosi sempre di levigare i suoi personaggi, cioè non dimenticando mai di essere film e non docu-film, di essere racconto fantastico e inventato e non cronaca dell'attualità. E sebbene in qualche momento sembri di percepire un afflato vagamente teatrale (la quasi totale unità di luogo e tempo fa di questi scherzi) Margin Call sa spiazzare e quasi commuovere al momento giusto.
Finalmente quindi il cinema ha fatto quel che sa fare meglio, mettere sul piatto non la storia come si è svolta ma un racconto sentimentale della grande trama che pervade il proprio paese.