Mantícora, la recensione

Mantícora è un noir che gioca sulle attese e un senso di perturbante che arriva solo fine per mettere in discussione la nostra percezione

Condividi

La nostra recensione di Mantícora, presentato al Torino Film Festival 2022

Perchè quel titolo? Perchè il riferimento alla Manticora, ovvero l'essere mitologico con testa simile a quella umana, corpo di leone e coda di scorpione? Il rimando può sembrare immediato al suo protagonista, Julián, un modellatore di creature digitali, spesso mostri, per videogame. Ma il vero significato ci sarà chiaro solo alla fine, e l'effetto sarà veramente notevole, per come viene imbastito.

Più che un thriller, Mantícora è infatti un noir, dove non conta tanto la rivelazione (che comunque arriverà, ma solo dopo un lungo percorso) ma la condizione esistenziale. Il regista Carlos Vermut gioca su una notevole sottrazione e glacialità della messa in scena: come già nel precedente Magical Girl, predilige il susseguirsi di piani fissi che trasmettono un senso di vuoto, più che di quello grottesco o angosciante che talvolta affiora, ma sempre per pochi attimi. All'inizio del film, Julián salva da un incendio un bambino rimasto intrappolato nella propria abitazione. Lo vediamo introdursi con coraggio, ma nella scena non c'è nessuna enfasi, nessun accompagnamento musicale. Così, quando poco dopo alcuni personaggi ballano in discoteca, tutti sembrano narcolettici, e lo stesso ragazzo li guarda distante, senza prendervi parte. Tutte le scene madri, le potenziali svolte narrative, sono totalmente depotenziate.

Il film mette al centro dell'intreccio il mondo dei videogiochi, chi lavora con la realtà virtuale e sensori VR spesso nella propria abitazione, con sporadici contatti con i colleghi. Ma l'intenzione del regista non è tanto parlare della disconnessione tipica del contemporaneo, o dell'apatia, l'assenza di emozioni. Quanto piuttosto della difficoltà di trasmetterle, della freddezza che sembra l'espressione di una corazza inscalfibile. A una festa, il protagonista incontra una giovane ragazza, Diana, e i due cominciano a frequentarsi in una relazione fatta di sguardi carichi di incertezza, piccole confessione intime, senza mai esplodere. Tutto è costruito su una sensazione di attesa, verso qualcosa che sembra non arrivare mai, raccontando un limbo emotivo che tiene a galla l'attenzione dello spettatore. La storia procede tra gli fugaci incontri tra i due, imprevisti più o meno importanti, fino a una rivelazione finale che farà assumere tutta un'altra prospettiva verso i personaggi e il racconto.

Nella conclusione, emerge così un effetto perturbante, a lungo ritardato, che colpisce perché non deriva solo dal plot twist, ma da come celebra un legame, un sentire comune, che andrebbe oltre l'accettabile, ma che il film ci spinge comunque ad accettare. Da come allestisce un lieto fine su una dinamica che non dovrebbe esserlo. Per come mette in discussione la nostra percezione, con uno dei rari movimenti di macchina che, avvicinandosi a volto del protagonista, ci pone di fronte alla sua insostenibile indecifrabilità.

Continua a leggere su BadTaste