Manifesto, la recensione

Fondato sulla parola e la recitazione, Manifesto è un film che sorprende per la scelta delle immagini e l'uso di costumi, location e casting

Critico e giornalista cinematografico


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È così difficile catturare la forza della parola che ogni film che ci prova è destinato o a fallire o a fallire magnificamente.

È questo quello che costituisce Manifesto: un fallimento fantastico da guardare.

Fallimento perché non sarà certo attraverso le immagini che Julian Rosenfeldt architetta intorno alle parole estratte da alcuni dei più importanti manifesti artistici e non del novecento che capiremo meglio quelle parole, ma magnifico perché gli accostamenti che crea con le sue scenette in contrasto, in armonia o in strane relazioni formano nuovi significati che nei momenti migliori addirittura esulano dai discorsi sull’arte o sulla politica.

Chiaramente al centro di tutto c’è Cate Blanchett e il suo virtuosismo di vestire 13 panni diversi, 13 personaggi differenti in 13 situazioni differenti, con 13 accenti, parlate e cadenze diverse che recitano (magnificamente, c’era davvero bisogno di precisarlo?) i suddetti manifesti. Ma forse il trasformismo e il sollucchero attoriale di una delle migliori attrici viventi è il livello più epidermico del piacere fornito da Manifesto.

Quello più profondo (e che rimane addosso più a lungo dopo la visione) è la capacità di associare quelle frasi e quelle idee che esse esprimono a contesti diversi. L’anticapitalismo recitato da un barbone che apre il film è l’associazione più diretta, semplice e scontata ma già quella che segue, il manifesto futurista in bocca ad una broker, è più interessante e via via scienziati, donne in lutto, madri di famiglia timorate di Dio, annunciatrici e semplici lavoratrici, recitano concetti astratti che per la prima volta ci paiono concreti anche se con significati leggermente diversi.

Decontestualizzando Rosenfeldt ricontestualizza alcune delle idee che più hanno avuto impatto nel novecento, le più suggestive, le più ironiche e provocatorie, in contesti in cui forse possono esserlo in altre maniere, in cui le stesse frasi possono convincerci, persuaderci o farci riflettere su altro. È videoarte più che film e non a caso Manifesto è così che nasce, la destinazione in sala è solo un secondo passaggio dopo quello museale, fomentato dalla presenza di un nome grosso come quello di Cate Blanchett, tuttavia è anche vero che la maniera in cui il contrasto audiovisivo si esalta non è estraneo al linguaggio dei film.
Come detto all’inizio Manifesto è un fallimento, non riesce creare davvero un discorso di immagini intorno all’esaltazione della parola, ma magari tutti i film fallissero in questa maniera magnifica, così tecnica, raffinata, avvolgente e stranamente memorabile.

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