Manifesto, la recensione
Fondato sulla parola e la recitazione, Manifesto è un film che sorprende per la scelta delle immagini e l'uso di costumi, location e casting
È questo quello che costituisce Manifesto: un fallimento fantastico da guardare.
Chiaramente al centro di tutto c’è Cate Blanchett e il suo virtuosismo di vestire 13 panni diversi, 13 personaggi differenti in 13 situazioni differenti, con 13 accenti, parlate e cadenze diverse che recitano (magnificamente, c’era davvero bisogno di precisarlo?) i suddetti manifesti. Ma forse il trasformismo e il sollucchero attoriale di una delle migliori attrici viventi è il livello più epidermico del piacere fornito da Manifesto.
Decontestualizzando Rosenfeldt ricontestualizza alcune delle idee che più hanno avuto impatto nel novecento, le più suggestive, le più ironiche e provocatorie, in contesti in cui forse possono esserlo in altre maniere, in cui le stesse frasi possono convincerci, persuaderci o farci riflettere su altro. È videoarte più che film e non a caso Manifesto è così che nasce, la destinazione in sala è solo un secondo passaggio dopo quello museale, fomentato dalla presenza di un nome grosso come quello di Cate Blanchett, tuttavia è anche vero che la maniera in cui il contrasto audiovisivo si esalta non è estraneo al linguaggio dei film.
Come detto all’inizio Manifesto è un fallimento, non riesce creare davvero un discorso di immagini intorno all’esaltazione della parola, ma magari tutti i film fallissero in questa maniera magnifica, così tecnica, raffinata, avvolgente e stranamente memorabile.