Maniac: la recensione

I dieci episodi di Maniac sono un movimentato viaggio nell'elaborazione del dolore, supportato da interpreti in stato di grazia e da una scrittura che fa leva sui sentimenti

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Spoiler Alert
"Gli uomini non sono prigionieri dei loro destini, sono solo prigionieri delle loro menti." Nella frase di Franklin Delano Roosevelt è riassunto uno dei messaggi chiave di Maniac, miniserie Netflix diretta da Cary Joji Fukunaga, basata su un omonimo format norvegese. In un arco di dieci episodi che sembrano voler mescolare Se mi lasci ti cancelloBlack Mirror2001: Odissea nello spazio e innumerevoli altre suggestioni nelle continue sovrapposizioni tra realtà e sogno forzato, la serie ideata da Patrick Somerville con Fukunaga ci mostra un futuro nostalgico, in cui assistiamo a un'evoluzione-involuzione tecnologica: è un mondo popolato da fax, sfarfallanti insegne al neon e computer che coprono un'intera parete (a metà tra lo Star Trek anni '60 e il decodificatore del codice Enigma), all'inseguimento ostinato di un'estetica familiare che possa in qualche modo rassicurare e colmare il distacco crescente tra gli esseri umani.

In questo tempio del vintage, frutto di un'accattivante elaborazione visuale che coinvolge soprattutto la scenografia di Alex DiGerlando, avviene la fortuita (?) collisione di Owen Milgrim (Jonah Hill) e Annie Landsberg (Emma Stone), anime in pena afflitte dal senso di colpa verso se stessi o verso i propri affetti perduti. Lupi solitari, arroccati nelle proprie fortezze di dolore e refrattari a qualsivoglia contatto emozionale; soprattutto, in cerca di una soluzione definitiva al loro soffrire, a un balsamo che possa lenire le ferite provocate da un passato che ha l'aspetto di una belva sempre pronta ad azzannarli alle spalle.

È però un morso sopportabile per Annie, consumatrice assidua di una droga ancora sperimentale con cui rivive continuamente il ricordo del giorno in cui, litigando, ha perso la sorella minore Ellie (Julie Garner), origine e fulcro dei suoi disagi relazionali; al contrario, Owen sembra atrofizzato e prossimo alla catatonia, rassegnato burattino nelle mani di un Mangiafuoco collettivo che costituito dal suo intero nucleo familiare. "I maschi della famiglia Milgrim vincono sempre", recita convinto il padre Porter (Gabriel Byrne) mentre spinge il figlio a testimoniare il falso per salvare il fratello maggiore Jed (Billy Magnussen) da uno scandalo sessuale che comprometterebbe il buon nome dell'intero, potente clan.

Sia Annie che Owen sono in fuga da sé stessi, da un io che identificano come "sbagliato" perché inesauribile fonte di disgrazie; nessuno dei due riesce a perdonarsi, la prima per il decesso di Ellie, il secondo per aver allontanato da sé ogni sincero affetto a causa della propria schizofrenia. Disorientati in un mondo che, epurato dalle dietrologie allucinatorie di Owen, appare come un marasma caotico privo di senso, si rifugiano tra le braccia apparentemente accoglienti di una casa farmaceutica che sta sperimentando una terapia atta a eliminare, tramite l'ingestione di tre diverse pillole, ogni trauma doloroso dalla coscienza dei pazienti. Non si tratta, come in Se mi lasci ti cancello, della rimozione del ricordo in sé, ma dei sentimenti negativi a esso correlati.

Basterebbe questo elemento narrativo per dimostrare come Maniac, dietro la sua freschissima e godibile facciata di commedia drammatica, punti a parlare non solo dei problemi dei suoi protagonisti ma anche delle falle strutturali di una società fin troppo condizionata da farmaci e tecnologie, palliativo momentaneo alle crepe dell'animo. L'inadeguatezza dello strumento terapeutico emerge sin dai primi episodi attraverso la grottesca figura di colui che ha ideato il bizzarro metodo curativo, il dottor James K. Mantleray (Justin Theroux), a sua volta schiacciato dalla gigantesca ombra di una madre (Sally Field), rinomata psicologa, che da sempre lo fagocita tanto sul piano affettivo quanto su quello professionale.

Sulla base degli schemi mentali di quest'ultima l'agorafobica dottoressa Fujima (Sonoya Mizumo) - la cui vita si articola quasi esclusivamente tra i 77 piani della sede dell'azienda - ha programmato GRTA, il computer che si occupa di pilotare le esperienze di sogno attraverso cui i volontari sottopostisi alla sperimentazione affronteranno e combatteranno i loro traumi; seguendo la scia di un'infinità di racconti di fantascienza, anche in Maniac s'indaga il mistero della coscienza umana robotizzata o, ancor meglio, digitalizzata. Sebbene su questo fronte la serie non aggiunga molto a quanto già visto, rifiutandosi di dare una definitiva risposta etica o filosofica, le interazioni tra i personaggi e GRTA toccano vette di vibrante commozione.

Maniac

Stesso dicasi per i sogni di Annie e Owen, misteriosamente incrociati e sovrapposti, inaspettati muri portanti di un'affinità scientificamente inspiegabile. Forse il destino non esiste, forse il mondo è effettivamente guidato dal caos, ma Maniac sembra volerci portare progressivamente a credere nel contrario con la speranza ingenua di un bambino. Non siamo di fronte agli ambiziosi afflati scientifici di Interstellar; la fantascienza e la scienza di Maniac parlano al cuore prima che all'intelletto, facendo leva sulle emozioni cardine dell'animo umano, splendidamente incarnate dai protagonisti in stato di grazia (impressionante e misuratissima la prova drammatica di Hill).

Non è infatti nell'ossessiva riproposizione degli eventi vissuti in mille chiavi diverse che i traumi di Annie e Owen trovano risoluzione, ma nell'assurda, inevitabile - a dispetto degli sforzi di Fujima e Mantleray - attrazione tra i loro cuori; non c'è nulla di banalmente romantico nel magnetismo che i due protagonisti esercitano l'uno sull'altra, ma piuttosto un toccante anelito empatico, una ricerca di contatto - adombrata sin dal primo, infastidito incontro tra loro, in cui Owen tocca senza alcun motivo Annie in fila - che diviene strumento salvifico e unica valida cura alle artigliate dei propri fantasmi.

Che Annie e Owen fossero destinati a incontrarsi o meno, ciò che Maniac suggerisce, con semplicità disarmante e opposta alla complessa stratificazione della sua narrazione, è che il male ultimo della società - intesa non come macro organismo bensì come somma di coscienze individuali - è la solitudine. Privati del confronto, non siamo che naufraghi persi in un oceano di conflitti interiori, prigionieri del nostro passato, vittime del nostro stesso severo giudizio senza speranza di un'assoluzione proveniente da un diverso (ma solidale) punto di vista.

In un mare magnum di prefigurazioni fantascientifiche sempre più apocalittiche che cinema e televisione non mancano d'offrirci, Maniac ha il sapore di una carezza dopo una scarica di pugni. "Senza amici, nessun uomo sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni", osservava Aristotele: è questo il senso della vita indicato con chiarezza dal coinvolgente finale di serie, ispirato inno al potere catartico dell'amicizia, collante universale che riscatta dalla morsa del destino - o del caos - uomini e macchine più di qualsiasi stratagemma medico o innovazione tecnologica.

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