Manhunt: la recensione

Al netto di alcune ottime interpretazioni Manhunt cerca di fare troppo, frammentando in maniera esagerata la sua narrazione

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Spoiler Alert

Basata sul libro Manhunt: The 12-Day Chase for Lincoln's Killer di James L. Swanson, Manhunt, miniserie creata da Monica Beletsky (Fargo, The Leftovers, Friday Night Lights), racconta il tragico omicidio del Presidente Abraham Lincoln (Hamish Linklater), avvenuto mentre lui e la moglie Mary Todd assistevano allo spettacolo teatrale Our American Cousin presso il Ford Theatre di Washington, per mano di John Wilkes Booth (Anthony Boyle) e la caccia all'uomo che ne seguì, ad opera dell'allora Segretario alla Guerra del Presidente, Edwin Stanton (Tobias Menzies).

Manhunt e ritmo narrativo che distrae

Manhunt ha debuttato su AppleTV+ con i primi 2 episodi il 15 marzo e proseguirà con i restanti 5 (7 in tutto) che saranno disponibili sulla piattaforma ogni giovedì. Anche questa serie, come sembra essere ormai diventata un'irrinunciabile abitudine per molti prodotti televisivi, non resiste alla tentazione di raccontare in maniera non lineare, facendo un continuo uso di flashback, la storia dell'omicidio del Presidente, della caccia all'uomo che ne seguì e delle indagini che portarono alla scoperta di una cospirazione che avrebbe voluto portare lo scompiglio nel paese con l'uccisione, non solo di Lincoln, ma anche del segretario di Stato William H. Seward (Larry Pine), che sopravvisse casualmente all'accoltellamento grazie al fatto che indossava un collare, e del vicepresidente Andrew Johnson (Glenn Morshower), che si salvò perché il suo assassino non ebbe coraggio di andare fino in fondo.

Sebbene, da una parte, questa scelta narrativa sia spiegata dal comprensibile desiderio dell'autrice di inserire il personaggio di Lincoln nella storia, la cui statura politica ed umana è tutt'ora riconosciuta, tanto da essere stata oggetto di innumerevoli ricostruzioni cinematografiche e televisive, il risultato è fin troppo confuso e sposta l'attenzione da ciò che della serie funziona meglio, cioè il personaggio di John Wilkes Booth e la sua fuga, che durò ben 12 giorni.

La scelta di non rinunciare al personaggio del Presidente, grazie ai numerosi flashback, oltre a mostrare lo stretto legame tra Lincoln ed il suo Segretario alla Guerra ed amico di lunga data, Edwin Stanton, che motiva il fervente abolizionista, interpretato da Tobias Menzies, a combattere contro tutto e tutti perché la Ricostruzione post Guerra di Secessione vada come il Presidente avrebbe voluto, contribuisce a dare del Presidente una rappresentazione più intima che storica, ma ha anche lo strano effetto di non far sentire abbastanza il vuoto lasciato da uno statista quale egli era, minimizzando in un certo senso il pericolo che il Paese corse, con la sua scomparsa, di ricadere in una guerra civile o, peggio, essere per sempre separato in due diverse fazioni in continuo contrasto, il che, a dirla tutta ed, immaginiamo, non a caso, è una rappresentazione più che accurata dell'attuale status politico del paese.

Sic semper tyrannis!

"Così sempre ai tiranni!", questa la frase che John Wilkes Booth notoriamente gridò saltando al centro del palco dopo aver sparato al Presidente Lincoln e prima di darsi alla fuga e, per quanto concerne Manhunt, è proprio la ricostruzione di questo personaggio a costituire la parte più interessante dello show: un attore teatrale, noto per la maggior parte per i suoi stunt, con un ego smisurato, che vedeva la vittoria dell'Unione e la liberazione degli schiavi come il peggiore dei mali e che era convinto che i Confederati lo avrebbero accolto come un eroe per il suo gesto.

Al contrario, ogni volta che la narrazione si sposta dalla caccia all'uomo e dal teso confronto - a distanza - tra i due personaggi di Booth e Stanton, due uomini parimenti ossessionati dalla loro missione, la serie sembra perdere di forza, soprattutto quando si concentra su sottotrame storicamente inaccurate, come quella che la colloca con Booth nella fattoria del suo ex padrone, il Dottor Mudd, una delle testimoni chiave del processo contro i cospiratori per la morte del Presidente.
Nella realtà Mary Simms, interpretata dall'attrice Lovie Simone, che con la sua testimonianza contribuì effettivamente a far condannare il dottore, non interagì mai con Booth, perché aveva lasciato la casa già da tempo quando l'assassino del Presidente vi trovò rifugio e per una serie che si vuole chiaramente dare un certo tono storico, deviazioni narrative come questa risultano quasi fastidiose, soprattutto considerato come la verità storica non avrebbe sminuito in alcun modo una coraggiosissima giovane donna come la Simms che, a soli vent'anni, unica donna, per di più afroamericana, ammessa come testimone al processo militare, trovò il coraggio di andare contro un intero sistema.

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