Mandibules, la recensione | Venezia 77

Per la prima volta Mandibules attenua la vena astratta di Dupieux, riporta il suo umorismo sulla terra e trova finalmente una forma di efficacia

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Quentin Dupieux è sceso tra di noi. Finalmente. L’autore di commedie come Rubber, Wrong, Wrong Cops e Reality era arrivato al massimo della sua notorietà con Doppia pelle, con la star Jean Dujardin quasi uscito anche in Italia e bloccato dal lockdown, portando avanti con coerenza invidiabile un’idea di commedia molto politica, molto comica e fondata su un umorismo peculiare, non buono per tutti. È un umorismo basato sull’assurdo che però non somiglia al demenziale classico, cioè non si fonda sul ribaltamento dell’ordine e sul rovesciamento di convenzioni o situazioni per svelare qualcosa (portare caos in un luogo irregimentato, comportarsi in modi opposti al normale, caricare all’inverosimile i tratti che conosciamo della realtà fino a che non si deformano), ma su deviazioni surreali. I suoi film sono fatti di interni in cui piove senza che nessuno si stupisca, di personaggi che di colpo cambiano carattere o accusano senza ragione ma anche di pneumatici malvagi. Tra il fantastico e l’inspiegabile cerca la risata e un senso a quel che dice. Non sempre lo trova.

Mandibules è un passo verso il classico, uno che Dupieux fa per la prima volta e che lo porta in un reame di umorismo un filo più convenzionale e forse anche per questo più ampio e vicino ad un pubblico maggiore dei soli appassionati. Mettendo insieme due idioti simili a quelli di Scemo e più scemo, in un mondo cinico e indifferente di assurdità che sembrano uscire da un film dei fratelli Coen (l’anziano e ricco che indossa una dentiera di diamanti sembra uscito da un loro film) stavolta Dupieux si avvicina al territorio di Delepine e Kervern, coppia autrice di Louise Michel e Mammuth, icone dell’umorismo anarchico, politico e letteralmente devastante. Ad essere però onesti riesce a ricordarli solo alla lontana.

È vero che per la prima volta in suo film fanno capolino dei sentimenti, fa capolino un’umanità con dei desideri che non siano solo fuggire la morte. Però lo stesso Mandibules sembra ancora convinto che un personaggio che urla invece di parlare sia di per sé divertente o che sia un esito comico invece di una buona base su cui costruire qualcosa. Sembra convinto che basti avere una mosca gigante da ammaestrare per far ridere e dire qualcosa, invece di metterla a frutto davvero.
Così il film riesce ad essere convincente solo quando scende a livelli più convenzionali, lavorando sui due protagonisti e il loro rapporto (il gesto di approvazione “toro” è una gag ricorrente molto classica ma davvero esilarante) o quando rifà a modo suo classici della comicità (la fuga della mosca appena liberata).

Quella autenticità da sconfitti che permea moltissimo cinema comico più radicale (Jared Hess o il geniale Antonin Peretjatko ne sono esponenti tra i molti) è evidente che sta anche in questo film ma non ha mai quell’evidenza, quella pregnanza e quella chiarezza che ha invece altrove.

Sicuramente è personale e soggettiva la capacità di Mandibules di far ridere. Talmente peculiari sono i suoi tempi e le sue scelte da essere insindacabile l’esito. Ciò che invece si può commentare è la fatica che fa a trovare un senso nei suoi film volutamente senza senso.

Continua a leggere su BadTaste