Mamma o Papà?, la recensione

Genitori in lotta per affidare i figli all'altro. Mamma o Papà? pare una rivoluzione per il nostro buonismo ma è un remake di un film francese

Critico e giornalista cinematografico


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Cosa succederà quando avremo esaurito le coppie per le commedie italiane?

Ci sono nettamente meno nuovi attori che commedie di coppia, quante combinazioni possibili ancora ci rimangono con i medesimi volti?
Intanto ora l’inedita coppia Albanese-Cortellesi anima una delle commedie più originali e devastanti dell’annata italiana. Parliamo di un’autentica rivoluzione copernicana per il nostro cinema fatta di possibilità e liberazione dai vincoli buonisti cui siamo sempre legati quando si parla di affetti. Insomma un film che si vede con un entusiasmo direttamente proporzionale alla delusione data dallo scoprire alla finale che è un remake di un film francese e che di nostro ci abbiamo messo ben poco e non abbiamo rivoluzionato niente, anzi c’è voluto un successo straniero (Papa Ou Maman) per spingerci a copiarli.

La scelta tra Mamma o Papà? del titolo è infatti un classico della commedia romantica, la gara ad accaparrarsi i favori dei figli, solo che qui è una gara al contrario, fomentata dall’individualismo e da un disprezzo per gli interessi dei figli che inizialmente infastidisce, quando i due genitori decidono di divorziare con una facilità e tranquillità disarmanti, come se non importasse poi molto. Tuttavia quando quest’atteggiamento diventa la regola e l’espediente comico e cinico, tutto cambia e si tramuta in pura ferocia nell’assicurarsi il privilegio di poter lavorare all’estero affidando i figli all’altro. Sarà la prole a dover decidere con chi stare, quindi chi più li maltratterà, gli rovinerà la vita sociale, li farà vergognare di sé e si farà odiare sarà riuscito a spingerli nelle braccia dell’altro. Una dinamica che ben si adatta al classico personaggio di Paola Cortellesi, la donna perfettina e ingessata, la cui scorza protettiva viene distrutta dagli eventi fino a liberarne la parte animale, e invece a cui ben si adatta Albanese, che con la cattiveria e il cinismo comico ha grande familiarità.

Non solo l’idea è formidabile e finalmente ci fa riconoscere il mondo e le famiglie che conosciamo (perché le cose più vere non escono dai buoni sentimenti ma dai peggiori, gli unici che sentiamo davvero come sinceri), ma anche un gioco al rialzo in cui si stenta alla meschinità e bassezza di ogni passo. C’è insomma un non-affetto per i figli così concreto e tangibile che è ammirabile (specie quando è diretto verso il classico figlio piccolo simpatico e perfettino) e soprattutto coerente fino alla fine. Quel che è molto meno ammirabile semmai è il modo in cui tutta la storia è gestita. Nelle mani di Milani quest’impianto diventa un collage di gag che, una dopo l’altra, poco legate tra loro e prive di qualsiasi arco o “costruzione” (che non sia interna) capaci di dargli un valore superiore a quello che hanno da sole.
Come se non bastasse, una serie infausta di scelte musicali massacra ogni tentativo del film di trovare una messa in scena più raffinata della media

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