Mamma contro G.W. Bush, la recensione

Basandosi su una storia vera, Mamma contro G.W. Bush porta avanti intenzioni nobilissime, che però schiacciano la dimensione narrativa

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La nostra recensione di Mamma contro G.W. Bush, al cinema dal 24 novembre

Nessuno mette in dubbio la bontà di azioni e intenzioni di Rabiye Kurnaz, la Mamma contro G. W. Bush al centro del film omonimo. Lottare per ottenere un giusto processo, per denunciare abusi e torture non può che trovare il nostro sostegno, alla luci di diritti universali purtroppo non sempre garantiti, anche nel XXI secolo. E anche il film, sulla carta giustamente, abbraccia in toto il suo punto di vista, impegnandosi a trasmettere la memoria della protagonista e a ricordare qual è la situazione attuale. Questo però, paradossalmente, diventa un problema, se consideriamo non quello che è giusto o sbagliato, ma il film nella sua essenza, nel suo essere racconto cinematografico. Che alla fine non convince del tutto.

Basata su una storia vera, Mamma contro G.W. Bush racconta le vicende di Rabiye (Meltem Kaptan), casalinga di origine turche che vive con la famiglia a Brema, in Germania. Dopo gli attentati dell'11 settembre, scopre che suo figlio Murat di 19 anni è stato accusato di terrorismo e internato nella prigione di Guantanamo. Così, la donna comincia una strenua battaglia legale per difendere i diritti umani del ragazzo. Con l'aiuto di un avvocato idealista (Alexander Scheer) si recherà negli Stati Uniti, si unirà ad un associazione di persone in condizioni simili e si troverà a intentare una causa alla Corte Suprema contro l'allora presidente degli Stati Uniti.

Il regista Andreas Dresen parte dunque da fatti realmente accaduti, che mette in scena attraverso una spiccata dimensione finzionale. Nella prima parte, il registro scelto è soprattutto quello della commedia. Rabiye è una donna semplice dai valori e ideali altrettanto semplici, ma determinata a non fermarsi davanti a nulla per perseguire i propri obiettivi. Si deve dunque da subito scontrare con la burocrazia tedesca, fredda e distaccata, e poi con l'avvocato che lo aiuta, uomo da buoni propositi ma anche un po' rigido e poco propositivo. Così, unendo le forze, tra i due si crea una sorta di buddy movie in cui la prima impara a muoversi tra le alte sfere e il secondo a scalfire un po' la propria corazza. Tutte dinamiche che, per quanto possiamo immaginare verosimili, risultano un po' troppe automatiche, fin troppo "scritte", per la programmaticità con cui ci vengono proposte.

Quando poi la storia si sposta negli Stati Uniti, assistiamo a un'inevitabile acuirsi di questo quadro, tra equivoci linguistici e scontro tra chi vive all'avanguardia e chi sembra provenire da un altro mondo, con l'aggiunta del fatto che Rabiye è l'unica donna in mezzo a tanti uomini. Come da copione, saranno questi ultimi a imparare qualcosa dalla prima, che infonderà la giusta determinazione per andare avanti. Così, si susseguono siparietti comici di questo tipo, che però poche volte strappano il sorriso. Ci poteva essere spazio per una corrosiva satira sull'America alla Borat, ma non è l'intento che film persegue, tutto impegnato a perseguire la propria mission educativa.

Nella seconda parte, prende allora il sopravvento l'obiettivo di svelare le storture del sistema statunitense e tedesco, attraverso modalità troppo dirette. Ne è un'esempio l'onnipresente commento musicale, che sottolinea drammaticamente la realtà del figlio ogni volta che viene nominato, senza che effettivamente ce ne sia bisogno. O la scena della conferenza stampa di presentazione della campagna, dove un giornalista prova a chiedere "ma non considerate che i vostri figli siano comunque dei terroristi?", per venire liquidamente frettolosamente. Capiamo allora come stonare è il fatto che il film non lasci spazio ad alcun contradditorio, a nessuna ambiguità, in una divisione manichea tra buoni e cattivi. Aspetto che nella realtà ritratta può anche essere corretto, ma lo è meno nella dimensione narrativa, che così risulta troppo semplificata, adagiata su struttura e passaggi convenzionali. E come cerchi sfacciatamente di persuadere su un tema su cui (presumiamo) la maggior parte degli spettatori è già ben predisposto.

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