Scrivere un film di solo dialogo è sempre un azzardo enorme. Un virtuosismo in cui i più ingenui falliscono miseramente, e in cui i migliori riescono raramente. Ci vuole infatti un controllo totale ed esperto, o un talento innato, per gestire i tempi, dosare le informazioni che si ricavano dal dialogo e insieme far risplendere un non detto che ci parli in modo più ampio di quanto non facciano i soli personaggi. Scritto e diretto da
Sam Levinson,
Malcom & Marie raccoglie coraggiosamente questa sfida, costruendo un
film fatto di due soli personaggi, in un solo ambiente, in cui la durata del film corrisponde a quella dei fatti narrati. Ma il risultato non è all’altezza delle aspettative.
Subito osserviamo i due protagonisti rientrare in casa dopo una serata. Dai loro dialoghi capiamo chi sono e cosa fanno: lui (John David Washington) è un regista che ha appena presentato un film, lei (Zendaya) è la sua ragazza. Ma l’atteggiamento di lei ci fa capire che c’è qualcosa che non va, che qualcosa l’ha amareggiata. Subito, quasi non sapesse resistere, Levinson pone rimedio a ogni possibile dubbio, dotando i due personaggi di una sincerità che li obbliga a dichiarare costantemente come si sentono, perché si sentono in quel modo, cancellando così ogni possibile costruzione di un sottotesto, di un non detto. Che è, appunto, la caratteristica cinematografica necessaria nei migliori film di dialogo. Levinson invece scioglie ogni tensione, decide (chissà quanto consapevolmente) di disinnescare continuamente ciò che va costruendo del rapporto tra i due. Forse il problema di Levinson è che a Malcolm e Marie vuole troppo bene, perché ogni volta che uno dei due tira fuori qualcosa di negativo sull’altro, dice qualcosa di brutto o si comporta male, subito dopo ci viene data una motivazione di quel comportamento, di quella parola. Rendendo tutto sempre palese, dichiarato.
Il problema non è allora, attenzione, se lo sceneggiatore debba avere fiducia nell’umanità dei suoi personaggi. Quello è un altro tema. Il problema di
Malcom & Marie è che questo amore va esattamente in senso contrario a ciò di cui il film necessità, ovvero il mistero (che tra l’altro è, paradossalmente, una delle parole più importanti del film). O anche solo un po’ di buon vecchio silenzio. L’intuizione c’era: d’altronde, anche esteticamente il film sembra rifarsi a quella tradizione
artsy e da cinema americano indie, a partire dal bianco e nero, limitato da un basso budget e quindi basato molto sul dialogo, con al centro problemi il più delle volte relazionali, amorosi. Dei personaggi del richiamato
mumblecore però Malcom e Marie sembrano tenere solo la parlantina, o l’impressione generale. Uno strumento che nel giro di poco tempo passa dall’essere necessario all’essere uno stratagemma insopportabile.
A tutto ciò Levinson cerca di aggiungere un discorso che vada oltre il loro piccolo, e che attraverso la loro esperienza di insider del cinema (lui come autore, lei come persona che ha ispirato il film) cerca di tirare fuori le contraddizioni dell’industria, della critica, con una riflessione sullo stato dell’arte. Tutte riflessioni che, prive di una valenza forte rispetto alla storia narrata, risultano però fini a sé stesse, per quanto argute o graffianti.
Se Zendaya e John David Washington sono certamente ottimi interpreti, le limitazioni della sceneggiatura sembrano intrappolarli, impedendogli di risplendere davvero come potrebbero. Levinson punta in alto, riesce anche a tenere in piedi il gioco di prendi/molla fino alla fine attraverso una buona scrittura dei dialoghi: ma se a mancare è una vera tensione invisibile tra i due, il
film non potrà che risultare più un esperimento che un’opera compiuta.