Mainstream, la recensione | Venezia 77
In un pastiche visivo delirante fatto di emoticon, reactions, dirette e repost, Gia Coppola cerca di portare a compimento un discorso sulla responsabilità dei social, sulla dimensione politica dell’immagine: ma il risultato è davvero frenetico e sconclusionato, e l’unica cosa che rimane è il senso di vertigine.
Affianco a lui però non c’è più una femme fatale alla Robert Altman, ma la ventenne insicura e fissata con i social Frankie (Maya Hawke). Questa, dopo aver ripreso casualmente Link mentre inveiva contro gli effetti del consumismo davanti a un pubblico improvvisato, posta il video su YouTube, ricevendo l’engagement sui internet che aveva sempre sognato. Da quel momento Frankie e il suo amico Jake vengono trascinati nella follia mitomane di Link (il perchè del nome è facilmente intuibile), e insieme costruiscono su di lui l’alter-ego virtuale NoOneSpecial: ma presto la filosofia antisistema si piegherà ipocritamente alla logica di mercato.
In Mainstream infatti non c’è davvero nessuna denuncia, nessun messaggio. O meglio, se c’è è nascosto nella mischia. Ancorato alla pretesa di serietà e quasi di ammonimento (ma verso chi?), Mainstream manca di quella duplicità interpretativa che forse davvero solo il lavoro sul genere riuscirebbe a restituire: come ha fatto appunto David Robert Mitchell, o come ha fatto Refn in The Neon Demon. Salvato dalla performance di Garfield (che è sempre bravissimo nei ruoli comici) e della Hawke (capace di una fragilità e insieme di una forza naturali), il film è però tutto ciò che, nelle premesse, non vorrebbe essere.