Magic Mike – The Last Dance, la recensione

Non c'è redenzione per Magic Mike che non passi per il corpo: The Last Dance lo conferma e rilancia, un film di corpi e dei luoghi che occupano

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Magic Mike Last Dance, in uscita in sala il 9 febbraio

Nonostante Steven Soderbergh giri storie d’ingegno, quelle in cui qualcuno truffa qualcun altro, oppure in cui qualcuno cerca la scalata sociale o ancora in cui vuole realizzare il proprio sogno, l’impressione è sempre che i suoi siano film in cui è solo il corpo (un corpo potente) a definire le relazioni con il mondo dei personaggi e quindi a forgiare i loro destini o comprare il mondo per loro. I corpi bellissimi di Ocean’s Eleven, quello irresistibile di Sasha Grey in The Girlfriend Experience, quello letale di Gina Carano in Knockout, quello scolpito e attraente di Channing Tatum nella serie Magic Mike. Qui ancora una volta la vita di Mike è cambiata dal suo corpo. Lo incontriamo mentre lavora come bartender ad un party sofisticato e già a sera la donna che l’ha organizzato lo convoca perché desidera pagarlo perché balli solo per lei. Un ballo che cambia la sua vita.

Volerà a Londra, vivrà nella sua casa e sarà messo da lei a dirigere un tradizionale teatro londinese per rinnovarlo all’insegna del ballo e del desiderio. Magic Mike - The Last Dance è la storia della preparazione di uno spettacolo innovativo, delle relazioni che si creano intorno a esso e del mondo tradizionale che vuole ostacolarlo. È un film formulaico. Anche. È un film di ballo con delle coreografie curate in modi a cui non siamo abituati (l’ultima davvero incredibile) e che (cosa che realmente lo rende diverso) hanno ogni volta un fine preciso, uno che vuole parlare ancora una volta del potere dei corpi. Questo per quanto riguarda la trama, ancora una volta però un film di Soderbergh è soprattutto l’opposto di tutto ciò.

Magic Mike - The Last Dance come i precedenti di Soderbergh è un film di luoghi, in cui ambienti, corridoi, stanze e la loro illuminazione contano molto di più degli esseri umani che li occupano e attraversano. Il film parte da una casa lussuosa e non si fermerà mai, passando solo per posti e luoghi sofisticati e meticolosamente illuminati. Così tanto che quando ad un certo punto ci sarà lo stacco sulla quotidianità di una burocrate in un normale quartiere di Londra sembrerà di colpo di stare in un altro mondo e in un altro film, con proprio un altro look visivo. E in questo che è un film formulaico sul ballo da strip bar in contrasto le forme d’arte tradizionali l’ambiente principale è un teatro che viene illuminato e ripreso proprio come uno strip bar, con tavolini e luci rosse, con balconate in cui stare in piedi e un ampio palco su cui esibirsi che viene reso adatto agli spogliarellisti scatenando la reazione delle autorità (che in realtà non attendono altro che vivere anche loro in funzione del proprio corpo represso). La storia del posto che sintetizza i temi del film.

I film di Soderbergh sono insomma sempre di più film di abiti, accessori, auto, gioielli, mobili, opere d’arte, interni, design e suppellettili, di tutto ciò che sta intorno agli esseri umani e li definisce e racconta. Rispetto a qualsiasi altro film questi elementi hanno un peso diverso nelle singole inquadrature: i posti che viviamo, i corpi che abbiamo. È la parte autoriale di un film che vuole essere crossover che tuttavia non decolla mai, schiacciata da quella più commerciale e formulaica che invece funziona.

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