Maestro, la recensione | Festival di Venezia

Con Maestro, Bradley Cooper costruisce un racconto ambizioso, imperfetto e affascinante quanto l’uomo che si propone di raccontare

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Spoiler Alert

La recensione di Maestro, il film di Bradley Cooper presentato al Festival di Venezia 2023

Complesso, contraddittorio e difettoso come il protagonista che si propone di raccontare, Maestroparte con lo slancio divertito di un musical in bianco e nero e cambia una, due, tre, mille volte nel corso delle sue due ore e dieci. Come si fa a raccontare vita e arte di un gigante in così poco tempo? Bradley Cooper ci prova e non sempre ci riesce, confezionando un affresco discontinuo che tutto ambisce e molto conquista.

Ci viene subito detto che Leonard Bernstein (lo stesso Cooper, al servizio di una mimesi), direttore d’orchestra, è però anche compositore. Con cristallina onestà, ci viene anche mostrato come Leonard Bernstein, omosessuale, s’innamori di Felicia Montealegre (Carey Mulligan, brillante e fragile come un cristallo). La donna, aspirante attrice, sottoscrive un silente patto che consente al fidanzato e poi marito di sollazzarsi con amanti maschi che mai rischiano di scalzare la posizione di faro e stella polare da lei detenuta.

Un corpo, mille anime

La prima mezz’ora pullula di convenzioni visuali, sonore, drammaturgiche; le note di Un giorno a New York accompagnano la nascita del sentimento d’amore tra Leonard e Felicia, filtrate attraverso un bianco e nero nostalgico che fa temere uno scivolone nel melodramma agiografico più tradizionale. Ma il Cooper di Maestro non è quello di A star is born, e questa bestia mutaforma che ha partorito e cresciuto sotto l’egida di Spielberg e Scorsese (produttori del film) lo dimostra ampiamente nella sua conturbante imperfezione.

Il Bernstein di Cooper è un genio non incasellabile, una personalità anti convenzionale e refrattaria a qualsivoglia definizione netta; questo film pieno di contrasti e contraddizioni è dunque perfetta eco del suo protagonista. Maestro evolve inquadratura dopo inquadratura, raggiungendo vette di raffinatezza visiva - e attoriale - che lo distaccano nettamente dalla biografia classica; abbandonato il didascalismo delle sequenze che precedono il matrimonio con Felicia, il colore irrompe nel film dando una sferzata di modernità anche ai dialoghi. Non solo un viaggio attraverso gli anni della vita del Maestro, ma anche una carrellata sull’avvicendarsi di stili estetici e narrativi nel corso del Novecento.

Musica, Maestro!

La musica avvolge ma non sovrasta il quadro privato di Bernstein; non siamo di fronte a una feroce, illuminata critica all’industria come Tár, poiché a Cooper interessa più l’uomo (e la donna) che l’artista. Ciò non gli impedisce di creare una tra le sequenze orchestrali più memorabili che il cinema recente possa vantare, in cui il finale della Sinfonia n. 2 di Mahler viene mostrato senza concedere spazio a ovvie deviazioni visive né flashback strappalacrime: la storia è tutta lì, e Cooper costringe il suo pubblico a divenire parte della platea in adorazione del Maestro.

Mahler ricorre, e non è certo un caso (l’adagietto della Sinfonia n. 5 di viscontiana memoria incornicia la quiete all’interno del nucleo familiare, e la suddetta Sinfonia n. 2, chiamata Resurrezione, sigla la riconciliazione con Felicia alla vigilia della scoperta della malattia). Così come Mahler (“boemo tra gli austriaci, austriaco tra i tedeschi, ebreo tra i popoli del mondo”), Bernstein è uno spirito poliedrico la cui ricchezza di sfaccettature lo rende inafferrabile agli occhi dei più. Al pari del compositore tardo-romantico, anch’egli ama sua moglie a dispetto dell’adulterio (in questo caso perpetrato, nel caso di Mahler subito). È una contraddizione? Certo. L’ennesima.

Sublimazione

Vale la pena spendere qualche parola anche sulla delicatezza con cui Cooper affronta il tema della malattia. Il corpo di Felicia si costella di crepe, ma il suo animo resta saldo, confortato dal calore del marito tornato nel nido per accudirla; il modo in cui il regista accarezza Mulligan, senza ombra di morbosità o pietismo ricattatorio, tocca il cuore e pulsa di verità (Cooper ha perso suo padre per un tumore nel 2011). L’orrore del cancro non viene censurato, ma sublimato attraverso il mezzo filmico ed esorcizzato a beneficio del pubblico.

Al netto di diversi cali di ritmo (specialmente nella prima parte), Maestro è una perla di coerenza, attestazione ultima dell’avvenuta maturazione - tanto come attore che come autore - di Cooper. Affrancatosi dal rischio di un’agiografia dozzinale, il suo secondo film è esattamente come l’uomo che si propone di raccontare: ambizioso, caleidoscopico, passionale e imperfetto, disinteressato al compiacere tutti ma, proprio per questo, magnetico nella limpidezza delle sue pulsioni e delle sue altissime ambizioni.

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