Il maestro giardiniere, la recensione

Il mito della seconda occasione sfrondato da ogni epica e riempito di fatica e incertezza di Schrader ha stavolta un'incarnazione mediocre

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il maestro giardiniere, il film di Paul Schrader presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia

Come è possibile trasformarsi in qualcos’altro? Cosa richiede il diventare altro da sé, abbandonare un passato disprezzato e odiato per avere la più americana delle seconde occasioni? 

Ancora una volta è un classico di Paul Schrader il cuore del suo ultimo film, lui che la seconda occasione raccontata mille volte al cinema non la guarda mai nel momento in cui arriva, cioè non gli interessa quel processo di stimolazione dell’ardore americano, lo spirito di rivalsa che alimenta la forza necessaria a rialzarsi (cosa che invece, per esempio, esalta Stallone), a Schrader interessa ciò che viene dopo. I suoi personaggi li cogliamo quando sono già in un limbo, quando sono dentro la loro seconda occasione ma non riescono a compierla. Il lieto fine che la parabola americana promette sembra sempre un miraggio per loro.

Così è il giardiniere di Il maestro giardiniere, tatuaggi nazisti che tradiscono un passato che non solo è complicato da cancellare ma che lui stesso vuole superare senza riuscirci (“Fatteli rimuovere” gli dirà una persona a cui confesserà di non avercela fatta). Arriverà una ragazza con problemi più pratici e urgenti a spingerlo a fare un passo indietro nel suo passato violento, per tentarne magari uno più lungo, in avanti, verso un futuro nuovo.

Al centro di un film di Schrader c’è insomma ancora una volta l’incredibile peso che richiede trasformare se stesso, la dedizione necessaria a cambiare una vita che pare condannata. In Il maestro giardiniere però la fattura lascia spesso smarriti. Nonostante il casting azzeccato (specialmente la matrona di Sigourney Weaver), troppi momenti non reggono il peso di quel che la sceneggiatura pretende da loro. C’è una scena a tavola così sfacciatamente poco curata, così chiaramente non rifinita da infastidire anche i meglio disposti. E pure la dinamica di soccorso di una damigella in pericolo sembra la soluzione più pigra possibile per il fine che il film si prefigge.

Certo, il discorso su un corpo che porta incisi i segni incancellabili dell’inferno affrontato e la visione finale di un possibile paradiso sono intuizioni grandi (soprattutto perché stavolta l'inferno non è ben raccontato ma solo suggerito e bene), ma una serie di dialoghi che sembrano usciti da un western di bassa lega e soluzioni di regia sempliciotte (quando va bene) o tirate via (quando va male), fanno in modo che tutto il meglio del film vada perduto e rimanga da godersi solo l'impianto teorico. 

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