Madres Paralelas, la recensione | Venezia 78

Dentro Madres Paralelas c'è il cinema migliore, quello delle immagini e dell'attrazione, anche se questo non è tra i film migliori di Pedro Almodovar

Critico e giornalista cinematografico


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Madres Paralelas, la recensione

È neonato il corpo che attira le donne di Madres Paralelas, non più un figlio grande (o un figlio deceduto come in Tutto su mia madre) ma un neonato inquadrato in continui controcampi dello sguardo di desiderio di Penelope Cruz e Milena Smit, madri diverse, una più adulta e una minorenne, di un medesimo bambino (perché e come è tutto il cuore dell’intreccio). In un film che all’inizio ha un’immagine eccezionale, una delle migliori di Almodovar, che mostra di nuovo, ancora una volta e in una maniera ancora diversa come il desiderio separi le persone che lo possiedono dalle altre (i protagonisti fanno sesso ma noi vediamo tutto da fuori, le finestre del palazzo sono tutte uguali e una sola è aperta con il vento che magnificamente gonfia una tenda), per la prima volta la passione e il “deseo” centrali della storia non sono di natura sessuale.

Queste immagini e queste idee sono sprazzi dell’Almodovar migliore in assoluto (quello che comunica visivamente non solo ciò che le parole non dicono ma proprio quello che il corpo sente) in un film che non è tutto all’altezza di esse. Pieno di alti e bassi, Madres Paralelas è un film stranamente molto di testa in cui un intreccio come sempre complicato e pieno di coincidenze e paralleli, mette insieme due donne a furia di numeri di telefono scritti a matita sui fazzoletti, per mettere insieme due visioni della Spagna. C’è un retroterra politico e attuale (in Spagna) che batte all’inizio e alla fine del film, rendendoci chiaro che due donne sono due versioni di ciò che la Spagna è stata e per certi versi è ancora. Due donne che sono unite da molto più di ciò che le divide e che hanno molto in comune.

Con una colonna sonora da horror americano anni ‘40, che in questo film spagnolo di oggi è tutta rimodulata dalle immagini, non suona più come il campanello che avverte di una presenza sovrannaturale, ma come il senso di colpa nella testa di Penelope Cruz, la parte migliore del film è giocata tra noi e lei. Siamo noi gli unici che la capiamo, gli unici che quando fa delle domande molto specifiche... capiamo che pensiero ci sia dietro. Questa grande intimità con lei è lo strumento, diverso rispetto al passato, per capirla. E su questo, sull’intimità con lo spettatore, lavora tantissimo Penelope Cruz, fotografa di moda bisognosa di lavoro, madre che ha una carriera oltre a un figlio e che non rinuncia a niente. Sappiamo benissimo che lo stile di Penelope Cruz, fondato sugli occhi, trionfa nei primi piani e senza parole, nei controcampi di ascolto. Qui invece, come già in Volver, è tantissimo corpo che cambia e che, di nuovo, desidera.

Questo è il cinema migliore anche quando non è il film migliore.

Presentato in apertura in Concorso.

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