Made in Italy, la recensione
Sfilacciato e pieno di fratture, Made In Italy vorrebbe raccontare alti e bassi della vita ma riesce solo ad affiancare scenette senza molto ritmo
Made In Italy è proprio tutto fuori tempo perché non centra mai il ritmo giusto mentre tenta un’operazione difficilissima che proprio del giusto ritmo avrebbe avuto bisogno. Il terzo film di Luciano Ligabue non vuole raccontare una storia lineare e canonica, con i consueti tre atti, un equilibrio che si rompe e una ricomposizione finale, ma fare un ritratto per ellissi di un momento nella vita di un uomo come molti. Non l’eccezionalità di un intreccio interessante ma l’ordinarietà della vita.
Made In Italy, propone la vita di un operaio in una compagnia che confeziona insaccati, padre di un figlio che sembra interessarsi a lui come se fosse il genitore e che, anche se non è particolarmente coinvolto ideologicamente, va a manifestare a Roma per i propri diritti (in quella che è una delle peggiori scene con manifestanti contro polizia di tutto il cinema italiano recente) e ci prende le botte. La permanenza in ospedale però sarà solo una delle molte disavventure vissute individualmente (tra amici, slot machine, auto e amanti) e in coppia con una moglie che lo ama tra mille difficoltà.
A intervallarli ci sono scenette musicali con canzoni dell’omonimo album di Ligabue, inserti che è davvero impossibile non percepire come forzati, l’ennesima frattura in un film che ha ormai rinunciato a trovare un’armonia e quindi un senso.