Mad Men 7x05 "The Runaways": la recensione

La recensione del nuovo episodio di Mad Men: ci avviciniamo all'interruzione stagionale

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Si fa presto a sussurrare con nonchalance "ok", quando bastano poche settimane per indulgere ancora una volta nelle proprie vecchie e malsane abitudini. Mad Men ha un modo tutto suo di raccontare l'ascesa e la caduta dei suoi personaggi, distante dagli slanci dei superuomini maledetti di Scorsese, che pure in quella caotica New York del passato si agitano, sognano e crollano sotto il peso di loro stessi. La scrittura elegante e ricercata di Matthew Weiner disegna per i suoi personaggi un percorso più tortuoso, ma anche più equilibrato, che non ha bisogno di alcuna sferzata violenta per tenere in mano gli spettatori, che continuamente pone ciò che è subdolo, nascosto, lasciato alla nostra interpretazione davanti a momenti che invece qualunque altra serie ci getterebbe in faccia urlando. È così che, in un episodio che termina con un threesome tra i meno erotici che si ricordino, e con la mutilazione di un capezzolo, sono altri i momenti da evidenziare.

Questo è The Runaways, quinto episodio dell'anno, ed è soprattutto Mad Men. Don Draper dopo sette stagioni continua ad essere l'oggetto inafferrabile sul quale sbattere la testa senza venirne a capo. Nel momento in cui si decifra un particolare della sua personalità, ecco che un nuovo strato, ancora più difficile da grattare, si rivela davanti a noi, scombinando tutto il quadro che ci eravamo creati. Don che si lascia vivere (o morire) nel suo appartamento infestato dagli scarafaggi, che ingoia senza problemi tutto il suo orgoglio per tornare a lavoro, che rimette tutto in discussione con una stupida sbronza, che viola apertamente le condizioni fondamentali del suo ritorno alla SC&P. Che non è solo un modo per ristabilire quelle che per lui sono le giuste gerarchie, né un modo per contraddire nel modo più eclatante possibile l'approccio di Lou alla gestione dei creativi.

Del paternalismo del suo nuovo boss Don Draper non sa che farsene, agisce come ritiene giusto, da uomo che sa di avere quella preparazione che gli consente di andare al di là dei limiti imposti dalle regole. Sul lavoro il personaggio di Jon Hamm è questo, lo è sempre stato. Nel privato, fuori dai riflettori invisibili puntati sul ruolo sociale che si è conquistato, il discorso è diverso. La passività con la quale accetta il threesome che gli viene imposto da Megan è emblematica di un personaggio che ha perso la bussola di se stesso e della propria identità al di fuori del contesto lavorativo. È come se, diventando Don Draper, il personaggio avesse naturalmente e meccanicamente compreso tutte quelle regole che gli permettono di essere un punto di riferimento nella sua professione, ma tuttavia ignorando quella parte fondamentale che gli consente di rimanere se stesso anche al di fuori di esso. Si fa presto ad applicare il titolo dell'episodio a Don, ma da cosa fugge esattamente il personaggio? E perché? Forse da se stesso, e va bene, ma da quale se stesso? È Dick Whitman che volge lo sguardo verso il futuro, unico suo possibile luogo di realizzazione? È Don Draper che si fa in quattro per aiutare l'incinta Stephanie, retaggio vivente del suo passato?

E poi c'è Megan, che negli anni ha certamente abbandonato quella patina da sognatrice un po' ingenua per costruire un universo proprio, nel quale la sua realizzazione personale passa necessariamente attraverso l'inglobamento di Don, o almeno di quello più debole che non ha il perfetto controllo sulla sua sfera privata. Il maltrattamento – come sempre molto sottile – nei confronti di Stephanie, liquidata senza troppi complimenti con un po' di soldi, è solo la prima parte di un trattamento che ha nel rapporto finale con la sua amica il culmine tematico (non emotivo) della vicenda. Tutto questo in un episodio nel quale la SC&P non appare così tanto, e nel quale trova altro spazio l'ennesima incursione nella situazione personale e famigliare di Betty, che tenta senza troppo successo uno slancio inserendosi in una conversazione sulla guerra in Vietnam solo per vedersi respinta e rigettata nel suo angolo di frustrazione e autocompatimento dal marito.

Il resto è nella triste e patetica caduta del personaggio di Michael Ginsberg (Ben Feldman). L'ebreo dal cognome familiarmente "beat" reagisce con inaspettata violenza alla novità del computer nell'ufficio. Una palese citazione da 2001: Odissea nello spazio (l'ennesima dopo che tutto lo scorso episodio ruotava su queste) vede Michael leggere il labiale di Lou e Jim di fronte alla macchina e pensare che siano omosessuali. Confessa a Peggy di temere che la macchina stia facendo diventare tutti omosessuali e di diventarlo lui stesso. Dopo un avvilente approccio sessuale che lo potrebbe salvare, l'uomo si ritira in buon ordine e, quando torna alla carica, ha con sé un capezzolo da donare alla donna. È tutto un po' improvviso, sebbene anticipato da tanti piccoli segnali, ma efficace. C'è l'omosessualità repressa di Michael, c'è la diffidenza di Peggy nei confronti dei mutamenti delle ultime settimane (ovviamente non crede alla storia del computer, ma non è certo convinta del suo ingresso nella società).

Mad Men è conflitto, fuga da se stessi, anche violenza. Forse non fisica, nemmeno verbale, ma più sottile ancora, quasi psicologica. E mancano solo due puntate all'interruzione.

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