È sempre difficile trovare qualcosa da dire su
Mad Men. I pregi sono sempre gli stessi, sempre intatti, sempre coerenti con il percorso iniziato nel lontano 2007 e che si concluderà tra quest'anno e il prossimo con la trasmissione, spezzata in due tronconi, della settima e ultima stagione. Quindi un
approfondimento psicologico che non ha eguali, un insieme di vicende tenute aggrovigliate dalla tensione che scaturisce dalla
verosimiglianza dei caratteri piuttosto che dagli sconvolgimenti della storia, una
tecnica (interpretazioni, regia, fotografia, cura dei dettagli e degli ambienti) che da sola basterebbe a proiettare la serie nell'olimpo dei migliori prodotti del piccolo schermo. Ed è anche per questi motivi che una première come quella andata in onda può essere spiazzante per lo spettatore. È sempre
Mad Men, con la sua superficie liscia sulla quale scorrono paralleli i grandi mutamenti storici e quelli più piccoli dei protagonisti, ma il ritorno dopo la lunga pausa, e la consapevolezza di aver iniziato l'ultima stagione, ci fanno adocchiare ancora di più i cambiamenti.
Siamo nel 1969. Il decennio degli uomini cattivi sta per terminare, e una nuova società, più eterogenea, più consapevole, ma anche più disillusa e malinconica, sta per soppiantare quella precedente. Don Draper (Jon Hamm) osserva alla tv il discorso di insediamento di Richard Nixon. Le proteste di fine decennio si intensificheranno presto, e sarà il culmine della Guerra in Vietnam, e ancora lo scandalo Watergate. L'era degli ideali e dell'illusione delle famiglie perfette, quelle a cui basta l'ultimo elettrodomestico (come la televisione che Don regala a Megan) per essere felici, è finita, e presto spalancherà le porte ad un'epoca di disillusione e violenza. E, come tutti gli altri, anche Don, Peggy, Pete, Roger e gli altri ne sono testimoni solo in parte consapevoli.
Nel tentativo di riallacciare i contatti con Megan e salvare quello che può nel loro rapporto, Don Draper vola a Los Angeles. E nei suoi gesti e nelle sue parole c'è tutta la consapevolezza della perdita del fascino e del ruolo sociale che con fatica aveva acquistato con la sua identità fittizia. Ha dovuto abdicare a figura di riferimento per la propria vecchia famiglia (che nell'episodio non appare) e verso i suoi ex sottoposti. Impossibile non pensare a Peggy, all'evoluzione straordinaria del loro rapporto nel corso degli anni. Da subordinata a pupilla, e poi ancora amica e confidente, fino all'impensabile sorpasso. Ora è Don che si trova a dover inseguire un passato che nel frattempo è andato oltre, ha sovvertito quegli stereotipi di genere e etnia sui quali aveva prosperato la generazione precedente. Molte più facce di colore alla Sterling, Cooper & Partners, e soprattutto molte più donne in posizione di rilievo.
Peggy (Elizabeth Moss) inevitabilmente soffre una condizione personale di rifiuto sul piano professionale da parte del suo nuovo boss, ma al tempo stesso deve fare i conti con la ricomparsa di Ted (Don barattò di fatto la propria "salvezza" con la sua nel finale della scorsa stagione) che ha riallacciato i contatti con la moglie. Negli ultimi dieci anni, i più importanti della sua vita, Peggy ha rinunciato all'amore, all'amicizia, perfino ad un figlio, per poter raggiungere, prima tra le donne, dei traguardi che all'epoca sembravano impossibili. Anche lei come Don ha indossato una maschera, e anche lei, come Don, alla fine è stata raggiunta da quel passato che ha tentato di negare, nascondere, affogare. Non se la passa meglio Roger (John Slattery). Alla fine per tutti i protagonisti è questione di adattamento. La sua sfida in particolare è quella contro l'avanzare dell'età: rifiuto della famiglia, inseguimento di uno stile di vita che non gli appartiene più e che fa anche un po' tristezza ad un certo punto. La figlia lo vorrà incontrare per perdonarlo, ma la sensazione è che l'uomo alla fine non ne esca esattamente vittorioso. L'unica che davvero sembra emergere in positivo è Joan (Christina Hendricks), inviata da Ken (Aaron Staton) ad un incontro di lavoro con Wayne Barnes nel quale la donna riuscirà a far emergere tutte le qualità che da sempre la contraddistinguono (competenza, professionalità, forza d'animo).
Time Zones è un'ottima premiere, nel pieno stile della serie della AMC. Non offre praticamente nulla di nuovo, non sconvolge, si limita a sorvolare tutti i protagonisti raccontandone le piccole-grandi sconfitte e l'inadeguatezza di fronte al nuovo mondo. Racconta benissimo i suoi personaggi strizzando l'occhio alla realtà storica con alcuni colpi ben assestati: su tutti il già citato discorso di Nixon, ma anche una scena di Don all'aeroporto che sembra citare il passaggio più famoso di
Jackie Brown di Quentin Tarantino (e quindi la Blaxploitation che sarebbe esplosa di lì a breve). Il tema dell'episodio è chiaro, ed è facile rintracciare nella scrittura della puntata, firmata dallo stesso creatore Matthew Weiner dei riferimenti non proprio sottili. Su tutti il dialogo in apertura di Freddy (
“This is the beginning of something”), ma anche Don che guarda in tv il prologo di
Orizzonte Perduto di Frank Capra nel quale si parla di un posto (anche una
“piccola fattoria”) nel quale trovare pace e sicurezza.