Mad God, la recensione | Locarno74

Uno dei film indipendenti più ambiziosi e colossali mai tentati è stato finito. Mad God è completo e sono 90 minuti di una densità visiva pazzesca

Critico e giornalista cinematografico


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Mad God, la recensione | Locarno74

Nel 1986 Phil Tippett ha iniziato a lavorare ad un film d’animazione in stop motion interamente autoprodotto e ha finito nel 2020, attraversando più di 30 anni e altrettante tecniche diverse, fino anche alla banale live action. Il risultato è un kolossal che non segue nessuna delle regole che conosciamo, in cui si distingue una follia anti-sistema che nemmeno nei sogni a budget altissimo di Terry Gilliam, un desiderio di grandezza commovente, la passione per le creature e il movimento di quello che è stato forse uno dei più grandi artisti degli effetti speciali in stop motion, che qui scioglie ogni briglie al suo immaginario nel bene e nel male.
Il risultato sono 90 minuti di una densità visiva che ha pochi sparuti precedenti (anche The Thief and The Cobbler, altra montagna di follia, raggiunge questi standard solo in alcune scene), in cui quasi ogni scena ha un background e una scenografia che in qualsiasi altro film di fantascienza sarebbero usate per la scena madre. Qui invece nessuna torna più di una volta. Si rimane subito impressionati, dopo poco sopraffatti, poi totalmente annichiliti e alla fine esausti da una visione che, è chiaro, non avrà pari.

La scena iniziale forse è la più impressionante, la torre di Babele in un trionfo di movimento e tenebre che scendono su uno score da kolossal hollywoodiano degli anni ‘50. Quando l’oscurità sarà completa arriva il titolo: MAD GOD.
Per i successivi primi 30 minuti osserveremo un esploratore tutto bardato scendere in basso prima a bordo di una sonda e poi a piedi, sempre più giù, sempre più giù, attraverso mondi, strati, stanze, cave, industrie e intere civiltà. Sembra quasi una versione oscura e disperata dell’inizio che Jodorowsky aveva ideato ma mai realizzato per il suo Dune (lo zoom attraverso tutta la galassia). E quell’idea mai realizzata che pare folle, in confronto a questi 30 minuti di discesa (che sono stati realizzati effettivamente!) impallidisce. A tenere vivo l’interesse non è una trama esilissima (l’esploratore segue una mappa in disfacimento) ma la sorpresa, continua, dei mondi che attraversa. Dinosauri, gnomi, schiavi, mostri, creature da Giger, altoparlanti da cui esce una voce dittatoriale che sarebbero i vagiti di un neonato deformati, gru, pietre volanti, trappole, fogne, vermi, fornaci... Le parole non tengono il passo delle visioni e anche solo il gioco di proporzioni tra esseri creature e strutture apre la testa in due. Il senso stesso di quello che vediamo è uno showcase di oppressione e morte in tutte le sue forme illustrato in una grande panoramica da 30 minuti verso un basso prima effettivo poi sempre di più metaforico.

Dopo questa mezz’ora il film comincia a viaggiare oltre il logico, troverà anche degli attori (mai dei dialoghi) e delle parti più allegoriche, poi ancora dei viaggi, con l’unico filo conduttore di un tentativo di distruzione che pare impossibile. E su tutto pesa quel titolo che non diventerà mai trama ma dà una lettura ad ogni cosa che vediamo.
La quantità di creature che Tippet disegna, costruisce, anima e fa muovere con una varietà e una capacità di attingere a situazioni, estetiche e suggestioni lontane e vicine nel tempo è un bacino attingendo dal quale si potrebbero realizzare film dell’orrore e di fantascienza sempre diversi per i prossimi 10 anni. E nonostante non ci sia mai un vero storytelling (cosa che accosta il film ad un impressionante showcase più che ad una vera opera), c’è un’idea di mondo e un’estetica chiarissime. Se il cinema è comunicazione audiovisiva questo film non fa altro in ogni fotogramma, con uno spazio minimo per la logica, e tutto l’interesse a lavorare di suggestione e visione fino a sconfinare in un nuovo standard di densità sullo schermo.

Alla fine sarà palese che il dio pazzo è lui, Phil Tippet, creatore e animatore di un mondo intero che esiste solo per la sua ambizione. Raramente si è vista così tanta sete di "essere di più", in un film, talmente tanta che alla lunga finisce per drenare via l'eccitazione nel pubblico. Un’impresa folle e irreplicabile da chiunque che vale la pena vedere almeno una volta nella vita. Il tentativo di mettere l’immaginazione di una vita dentro un film di 90 minuti che da ora in poi farà sembrare qualsiasi altra fatica cinematografica un hobby.

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