Macchine Mortali, la recensione
Il primo capitolo del possibile franchise di Macchine Mortali è corretto da tutti i punti di vista eppure non riesce a puntare sui suoi punti di forza
Macchine Mortali è infatti diretto dal professionista dietro a molti storyboard dei film di Jackson, regista di seconda unità sul set di Lo Hobbit, digital artist sempre per Jackson e altri (tra cui Steven Spielberg), eppure è impossibile non riconoscere la grana e la commistione di vero e falso di Jackson, la sua maniera di costruire set molto reali (è impressionante quanto si veda e si senta quel che c’è di non digitale nel film) e unirli benissimo con tutta la parte digitale, la sua passione per il video a frame rate alto da usarsi per alcune incursioni con macchina a mano molto mobile e una serie di obiettivi un po’ deformanti a grandangolo per le scene d’interno della cattedrale (fa molto anni ‘90 come lo facevano le riprese dell’interno di Isengard, la torre di Saruman di Il Signore degli Anelli).
Vista la trama che viene dai libri Philip Reeve è chiaramente un bene che sia così presente l’influenza di Peter Jackson (Macchine Mortali comunque lo vede sceneggiatore e produttore). Quel che semmai gli appartiene meno e che un po’ affossa un film che invece ha un gran bel ritmo, corre bene e non teme di affastellare eventi perché sa raccontarli con chiarezza, è il fatto che Macchine Mortali voglia essere leggero e avventuroso ma manchi completamente di senso dell’umorismo e ironia. Nonostante uno dei suoi molti modelli sia palesemente Guerre Stellari non vuole mutuarne anche la voglia di divertirsi e far divertire. In tutto il film regna una serietà che a un certo punto stona e che è più figlia della grande austerità dei franchise da libri young adult che dall’età dell’oro del cinema fantastico.