Macbeth, la recensione

Di tutti i Macbeth adattati per il cinema quello di Joel Coen è il più razionale e metafisico, il più determinato e lucido

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Macbeth di Joel Coen disponibile su Apple TV+

Non c’è nessuna vera follia nel Macbeth di Joel Coen. Quella che gli altri film hanno raccontato come la discesa nella pazzia di un uomo trascinato dalla sua bramosia in questo in realtà è una lucidissima presa del potere. Nell’adattare la tragedia Joel Coen sceglie di dare molto risalto agli aspetti razionali del protagonista che, nel momento in cui uccide per la prima, non sta sognando in grande ma accetta la propria fine, cioè l’opposto. Denzel Washington mette in campo il lato minimalista del suo spettro recitativo, fatto di mosse minuscole e sguardi secchi e improvvisi quando si professa ormai corrotto dal demone della bramosia e capisce che è tutto finito. Non ha l’occhio invasato di Toshiro Mifune di Trono di sangue né la serena gravità nello sguardo accigliato di Orson Welles. Lo sa cosa accade ma non può non andargli incontro.

I film dei fratelli Coen sono spesso le storie di uomini che assistono impotenti allo spettacolo del mondo che brucia di fronte ai loro occhi senza trovare un senso (L’uomo che non c’era, Crocevia per la morte, Barton Fink, A Serious Man, Burn After Reading ecc. ecc.) e questo è il loro Macbeth, un uomo che si avvia alla sua fine in inquadrature a prospettiva centrale. La soluzione formale più intrigante del film è infatti un punto di fuga centrale per tantissime inquadrature che solitamente non lo hanno, un’idea (tra le molte) che ben si accoppia al bianco e nero deciso e al 4:3. È il destino che bussa alla porta con dietro tutte le conseguenze.

La forza di questo Macbeth (davvero uno dei migliori mai fatti) è come una delle tragedia più metafisiche di Shakespeare sia resa proprio puntando su quell’aspetto, con un’eccezionale strega contorsionista e soprattutto in uno scenario di pura metafisica da De Chirico, un palazzo di forme lisce e moderne, brutaliste, in cui è la luce a creare le geometrie grazie alle ombre e nel quale i vuoti riempiti di ombre sono molto più ampi dei pochi esseri umani che li abitano.
Certo quello stile lì è anche il segno tramite il quale l’architettura parla di dittatura, lo stile del regime totalitario, e quindi un altro modo di parlare visivamente di potere. Ma in questo regno della luce, in cui quella pare l’unica legge che dà una forma (sempre diversa) ai posti, sì intuisce costantemente la presenza del trascendentale (che non è frequentissimo nei Coen).

Messo insieme questo Macbeth è esattamente tutto ciò in cui sguazza la A24, società di distribuzione tra quelle con maggiore personalità dei nostri anni, che seleziona progetti con maniacalità e li cura moltissimo per farli aderire ad un’idea intelletual-pop di successo che ha rivitalizzato interi generi come l’horror e fatto nascere nuovi autori.

Ma non si può nascondere che l’esattezza di questo Macbeth (esatto nei bianchi e neri, esatto nelle geometrie, esatto nelle prospettive ed esatto nei calcoli e nella lucidità dei personaggi) sia una maniera di rivedere uno dei luoghi comuni più tipici di Shakespeare, la follia dei regnanti, all’insegna di una più prosaica e coeniana cattiveria e meschinità umana. Che è un pensiero rivoluzionario applicato a Macbeth, asciugare le pulsioni e rimpiazzarle con una forma caotica di destino a cui tutti vanno incontro consapevoli, e quanto di meglio sia uscito da un Macbeth negli ultimi 30 anni.

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