Ma Rainey's Black Bottom, la recensione

Ma Rainey’s Black Bottom può essere allora il film che Spike Lee avrebbe voluto fare. Non solo ironicamente perché anche Levee, come in Fa’ la cosa giusta, è fissato con le sue nuove scarpe, ma per lo stesso sguardo tragico all’inutilità della lotta tra pari, per quell’amaro esistenzialismo che non ha paura di disturbare.

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L’uomo è artefice del suo destino. Ma se quell’uomo è nero lo è ancora, tragicamente, di più. Con lo stesso gusto agrodolce, profondo e malinconico di una canzone blues, Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe nasconde magnificamente tra i solchi dei vinili, sulle pareti di mattoni di uno studio seminterrato, in mezzo alla polvere e al sudore, una disperazione più radicata, difficilmente quantificabile, ma che nella voce della grande cantante Ma Rainey (Viola Davis) diventa sostanza di una lotta politica ancora aperta: quella dell’autodeterminazione degli afroamericani.

Siamo nella Chicago degli anni Venti. I quattro musicisti di Ma Rainey, considerata la mother of blues, si recano in studio per incidere il nuovo disco. La tensione tra i musicisti è subito palpabile: il giovane e insolente trombettista Levee (Chadwick Boseman nel suo ultimo ruolo) vuole fare le cose a modo suo, mentre tutti cercano di contenerlo. Levee è però sicuro del suo valore e non ha intenzione di arretrare di fronte a niente o a nessuno: il suo desiderio è non solo essere rispettato, ma quasi venerato, e non permetterà né ad altri uomini neri, né a Ma (la sola che ai suoi occhi è rispettata da tutti), né ai bianchi approfittatori dell’etichetta di guardarlo dall’alto in basso (o di integrarlo nel sistema se non secondo le sue regole). Accecato dal suo dolore, il ragazzo non sarà capace di razionalizzare: ma il prezzo di quel desiderio non sarà certamente quantificato in dollari.

Sempre costretto nello spazio angusto dello studio, Ma Rainey’s Black Bottom è un film ermetico ma non asfissiante, fatto soprattutto di dialogo (si intuisce subito la derivazione teatrale); un vero e proprio fiume di parole e di aneddoti che raccontano dolorosamente cosa vuol dire essere neri in America. Il film affida quindi la sua forza cinematografica nello sguardo ravvicinato ai suoi interpreti e insieme al gusto vivido per i dettagli, per lo più rivelatori o significanti. È infatti nel petto sudato di Viola Davis, nei suoi occhi pasticciati di trucco, nel modo in cui fa schioccare le labbra quando beve la coca-cola che Wolfe proietta con semplicità ed efficacia la sofferenza e insieme il potere che Ma si è duramente guadagnata; un potere che sa benissimo risiedere unicamente nella sua voce. Non è infatti la donna che i bianchi rispettano, ma è il denaro che quella voce può portare: Wolfe ce lo fa allora capire intuitivamente quando indugia sul dettaglio meccanico del vinile che viene inciso, che con quel suo piccolo meccanismo porta via a Ma un pezzo di quella sua emancipazione. Un potere che Ma, diversamente da Levee, è però pronta a contrattare.

Viola Davis è qui straordinaria, ma è in Chadwick Boseman e nella sua incredibile interpretazione che Wolfe fa risiedere tutta la vera forza nichilista e insieme obliquamente politica del film; in Boseman trova infatti terreno fertile per coltivare un personaggio potentemente drammatico, credibile, vivido e passionale, in cui risplendono i momenti migliori del film. È nei tanti punti di crisi e conflitto di Levee che Ma Rainey’s Black Bottom rivela il suo sottotesto, portando in superficie il vero nodo tematico: la tua disperazione, non solo come black man ma come essere umano, deve essere la tua forza, incanalata nella voce o nello strumento, in qualcosa che possa comunicare, mettere un ponte tra te e l’altro. La violenza, invece, non può che isolarti.

Ma Rainey’s Black Bottom può essere allora il film che Spike Lee avrebbe voluto fare. Non solo perché anche Levee, come in Fa’ la cosa giusta, è fissato con le sue nuove scarpe, ma per lo stesso sguardo tragico all’inutilità della lotta tra pari, per quell’amaro esistenzialismo che non ha paura di disturbare. La regia di Wolfe non raggiunge le stesse vette di creatività o inventiva del migliore Lee, ma nel suo essere così asciutto e sempre volto all’attore arriva comunque, efficacemente, dove deve arrivare.

Sei d'accordo con la nostra recensione di Ma Rainey's Black Bottom? Scrivicelo nei commenti dopo aver visto il film dal 18 dicembre su Netflix.

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