M3gan, la recensione

Il cripto-remake di La bambola assassina ha la grande idea di ribaltare il punto di vista per aggiornare la critica al consumismo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di M3gan, in uscita in sala il 6 gennaio

Ricorda molto Robocop la vita di M3gan, bambola meccanica con intelligenza artificiale pensata per i bambini, una versione umanizzata e avanzata di Alexa, così il film di Gerard Johnstone (scritto a partire da un’idea del maestro di bambole & tensione James Wan) la presenta, mentre viene attivata nella stessa maniera in cui veniva attivato Murphy in versione robotica. Lungo il film però scopriamo che la grande idea che un film Blumhouse ha avuto (di nuovo), è quella di fare un cripto-remake di La bambola assassina e ribaltare la prospettiva. Il tono, l’idea di orrore e gli elementi di forza sono esattamente quelli del film con Chucky e soprattutto c’è il medesimo sottotesto, la medesima idea di parlare del capitalismo tramite un giocattolo assassino. Solo che stavolta non solo la tecnologia sostituisce la magia (dinamica tipica dei nostri anni) ma tutto il racconto è visto dai produttori e non dai consumatori.

M3gan è una bambola con intelligenza artificiale inventata dalla protagonista, con essa mira a sfondare nel mercato dei giocattoli per conto della sua spietata e gigantesca azienda (che fino a quel momento ha prodotto un giocattolo con blanda intelligenza che sembra Spassolo dei Simpson). Nella sua vita, però, piomba una nipote preadolescente rimasta orfana dopo l’incidente in auto dei suoi genitori. Per aiutarla a superare il trauma, ma soprattutto per sperimentare la sua creazione, la zia darà alla nipote M3gan in anteprima e M3gan comincerà ad attaccarsi morbosamente alla bambina. Se Chucky veniva comprato da un barbone per soddisfare la sete consumista di un bambino da una madre single lavoratrice piena di sensi di colpa per le scarse attenzioni, M3gan è data a una bambina per non occuparsi di lei e del suo lutto, per appaltare tutto a qualcos’altro.

Tutto il processo di produzione, approvazione e marketing della bambola procede di pari passo alla scia di morti che lei lascia (rigorosamente senza che nessuno la sospetti), e proprio nelle dinamiche aziendali e in una strana forma di cinismo di questa zia (protagonista e amorevole in fondo ma anche parte della macchina), sta l’acume di scrittura e recitazione. Il tono come detto è molto ironico e tantissime leggerezze di sceneggiatura, tante dinamiche che non tornano anche nelle singole scene d’azione, sono tollerabili perché nessuno si prende davvero sul serio (giustamente!). Poi però quando ci sono scene come quella della presentazione della bambola agli investitori, nascosti dal classico vetro, si respira un’aria fantastica, terribile e spietata. La stanza al di là del vetro rettangolare sembra un film e gli investitori come spettatori si commuovono comprati dalla scena. Perfetto.

C’è infatti grande attenzione a rendere il dolore di questa bambina orfana che assiste a tutto e della quale nessuno si occupa nonostante sia sotto il riflettore in quanto prima sperimentatrice della bambola. Un dolore reso soprattutto visivamente tramite i piani di ascolto, in modo che non sia un dettaglio invadente ma al tempo stesso sia presente. È il segreto di un film che per il resto si presenta apparentemente come molto efferato e sanguinolento ma poi sa che per essere davvero commerciale deve sempre distogliere lo sguardo all’ultimo e non mostrare le atrocità che abbiamo capito stanno accadendo. È cinema estremamente scaltro questo, che arriva al suo punto con grande intelligenza, che sa benissimo come funziona il proprio genere (il finale, con la più classica disumana trasformazione in mostro della minaccia, grida “classico!”) e che senza ambizioni smodate si qualifica come il modello giusto per il cinema horror medio.

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