Luther: Verso l'Inferno, la recensione

Luther: Verso l'Inferno costringe, nell'inadeguato contenitore filmico, materiale che avrebbe trovato respiro in un'intera stagione

Condividi
Spoiler Alert

La nostra recensione del film Luther: Verso l'Inferno, sequel della popolare serie britannica disponibile su Netflix

Era il 2019 quando, col cuore gonfio di tristezza, salutavamo l'ombroso detective John Luther (Idris Elba), giunto a una sorta di capolinea professionale dopo un'escalation di violenza che l'aveva visto coinvolto non solo come investigatore, ma anche come giustiziere fuori dai confini della legge. Siamo sinceri, l'apertura verso un prosieguo c'era; e un nuovo capitolo è arrivato, seppur in una forma diversa da quella seriale cui Luther ci aveva abituati.

Luther: Verso l'Inferno è, almeno sulla carta, un film a tutti gli effetti; tuttavia, costringere l'indagine del detective sul folle serial killer David Robey (Andy Serkis) in sole due ore si è rivelata una scelta infausta. Abituati all'ampio respiro della serie ideata da Neil Cross, si ha l'impressione che la storia venga compressa in un contenitore striminzito, privata di qualsiasi possibilità di approfondimento psicologico e, ahinoi, anche di una buona dose di credibilità.

Psicologie abbozzate

Lungi dall'aver creato una trama ad hoc, da poter serenamente sviscerare in due ore, Luther: Verso l'Inferno costipa il materiale di un'intera stagione in una cornice inadeguata rispetto alla portata dei crimini commessi da Robey. Crimini, peraltro, talmente arzigogolati e su scala così ampia da apparire implausibili. Non ci viene mai chiarita la genesi dell'organizzazione messa in piedi (?) da Robey, né ci viene fornito alcun dettaglio in merito alla natura delle "colpe" della vittima principale, il giovane Callum.

Le deduzioni di John - plauso al sempre convincente Elba - appaiono piuttosto ingiustificate, e risulta difficile seguire il filo del suo ragionamento investigativo. Al netto di una trama monca - basti pensare al background di Robey e di sua moglie, mai approfondito realmente - ciò che duole constatare è come neanche il carismatico protagonista riesca a uscirne bene; rispetto a come l'avevamo lasciato, questo John Luther non evolve in alcuna direzione. E no, purtroppo non si tratta di una paralisi foriera di riflessioni; siamo di fronte alla diretta conseguenza di una scrittura pigra e inspiegabilmente sorda al richiamo delle profondità narrative.

Una corsa forsennata

Aggiungiamo, per motivare l'uscita di prigione del protagonista, un lungo segmento action decontestualizzato e straniante rispetto al malinconico afflato finora dimostrato dalla storia di Luther. Non che, all'occorrenza, egli non si sia dimostrato uomo d'azione; le sequenze dedicate all'inverosimile evasione dell'ex poliziotto fanno però sfoggio di una concitazione visiva estranea allo stile finora associato alla serie.

Chiariamo: il linguaggio di un prodotto può cambiare nel corso del tempo. Non è tanto questo inedito ritmo convulso a far storcere il naso, quanto il fatto che esso non rispecchi in alcun modo quel pathos tipico dei modelli cinematografici a cui fa riferimento. Sembra anch'esso un abito inadeguato, che stona in modo stridente con la pochezza drammaturgica di questo film, tediosa sequela di cliché che mai si staglia al di sopra della palude della banalità.

Occasioni sprecate

Eppure, gli spunti per dar vita a un racconto interessante non mancavano; dallo stato di latitanza di Luther, costretto a indagare nell'ombra per non essere riacciuffato, alle potenzialità del personaggio di Robey. Nessuno spazio viene concesso alle motivazioni che possono aver mosso i suoi folli gesti nel corso degli anni; se è vero che non sempre le cause della violenza debbano essere esposte al pubblico, Luther ha sempre avuto, nell'indagine psicologica, il proprio asse portante.

Siamo dinnanzi a un tradimento sostanziale di tutto ciò che il dramma del detective è stato finora, tradimento che non porta ad alcun miglioramento. Il giallo si dipana secondo strade contorte ma mai sorprendenti; l'introduzione di un nuovo personaggio - il detective Raine di Cynthia Erivo - non aggiunge nulla a un contesto scialbo e privo del suo abituale mordente drammatico. Un buco nell'acqua, che apre la porta a un nuovo corso per il nostro John; alla luce di questa deludente involuzione, non siamo più tanto impazienti di vedere cosa il futuro abbia in serbo per lui.

Continua a leggere su BadTaste