L'Uomo sul Treno, la recensione

Uno dei migliori film del Liam Neeson d'azione, L'Uomo Sul Treno sceglie di ingaggiare l'intelletto quanto il fisico a partire da una grande introduzione

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Sembra che Jaume Collet-Serra si sia fatto raffinato. È evidente fin dall’inizio di L’Uomo Sul Treno, il film più curato e preciso tra i 4 realizzati con al centro Liam Neeson e i suoi personaggi duri. Per la prima volta infatti uno dei loro film non si limita a lavorare sulla velocità delle immagini e le possibilità di un’azione che sia contemporaneamente asciutta come un western e carica come un B movie contemporaneo, ma cerca davvero di usare il linguaggio delle immagini al posto di quello delle parole per dialogare con lo spettatore.

È evidente nell’attacco della storia, in cui in una serie di ellissi che comunicano tra di loro vediamo la vita del protagonista, diverse mattine fatte di diverse sveglie, diverse colazioni, diverse uscite di casa e diversi arrivi alla stazione del treno. Fa sempre la stessa cosa ma invece di mostrarla come una routine monotona e grigia, troppo simile, la mostra come una vita dinamica in cui si ride o si è arrabbiati, si scherza alle volte e si è preoccupati in altre. Una vita che non si vuole perdere, una famiglia a cui essere attaccati. Questo gli dà modo, mentre ci mostra che vita faccia il protagonista, di introdurre il fatto che la famiglia non è particolarmente agiata e soprattutto che proprio lui ha un rapporto molto stretto con il figlio, grazie ad un’intelligente trovata che riguarda i libri.

Con una base simile e un attacco che ci avvicina così tanto al personaggio, creando un’intimità che non è solo data dallo stare nei luoghi della sua intimità, ma dell’esserci avvicinati al suo quotidiano, L’Uomo Sul Treno per quanto non sia poi “così” diverso dai film suoi simili, già si posiziona su un altro piano. Liam Neeson è ancora un uomo che è stato parte delle forze dell’ordine, e ha quindi un passato di violenza e un’esperienza diversa dagli altri, è ancora il classico personaggio che ha soppresso una parte di sé ma che deve ritirarla fuori per prendere le difese della sua famiglia (curiosamente, nonostante non sia il Bryan Mills della serie Taken, anche qui fa una minaccia al telefono) e infine si confermerà un eroe conservatore, tutto sani principi, pieno di certezze e disposto a piegare le regole e la legge per difendere sé e il proprio nucleo. Eppure il film stavolta lo ingaggia tanto a livello intellettuale quanto a livello fisico.

La sceneggiatura degli esordienti Byron Willinger e Philip De Blasi (coadiuvati dal più navigato Ryan Engle) non fa una grinza, gioca sul classico hitchcockiano dell’uomo comune attirato in circostanze straordinarie da qualcuno di più smaliziato di lui, è precisa con gli snodi (anche il bisogno di denaro è reso molto bene) e si distacca da questo modello non appena è ora di lanciare il treno ad altissime velocità e lasciare che Liam Neeson faccia Liam Neeson.

È proprio in quest’unione tra una scrittura di ferro tutta tesa verso la solidità del film, e una regia che si dedica ad una serie di passaggi meno convenzionali del solito, che L’Uomo sul Treno riesce a compiere la sua missione: essere un classico della tradizione del cinema di treno (in cui si muore, si ha poco tempo e c’è sempre un momento in cui si rischia di finire fuori) e anche un film pienamente unico e moderno.

Continua a leggere su BadTaste