L'Uomo di Neve, la recensione

Compresso eccessivamente e con un'evidente sensazione di superficialità, L'Uomo di Neve si salva solo per i suoi valori produttivi e i suoi attori

Critico e giornalista cinematografico


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Non c’è modo che in un film di indagini, omicidi e spostamenti alla ricerca di una risposta, se l’ambientazione è nordica e invernale, la neve e il freddo non giochino una parte fondamentale. Il senso di attutita tranquillità, la desolazione della città di notte piena di neve, la solitudine dei paesaggi extraurbani, la difficoltosa malinconia del grande freddo, tutto è in qualche modo collegato al gelo che si respira nei crimini e nell’umanità che viene proposta.

Forse proprio per questo, Tomas Alfredson, che invece della neve e del freddo aveva fatto un uso impeccabile in Lasciami Entrare, qui sembra quasi in dovere di insistere sugli scenari e sull’ambientazione invece di metterla realmente a frutto in maniere inventive.

Ma forse è proprio il termine “inventivo” che non si adatta al film tratto da L’Uomo di Neve di Jo Nesbo, perché questo thriller che rappresenta bene tutte le convenzioni dei thriller scandinavi si sforza in ogni modo di suonare convenzionale e familiare. Non ci fosse Michael Fassbender a dare personalità e carisma al detective protagonista, infatti, difficilmente questo potrebbe dimostrarsi all’altezza dell’impegno che il film poggia sulle sue spalle. Perché un film di indagini e omicidi non è mai davvero su indagini e omicidi ma su chi compie queste indagini, è sull’ineffabile abilità di uno Sherlock o sui problemi insormontabili di Marlowe o le piccole stranezze di Colombo. Qui Harry Hole è un uomo di cui capiamo poco, denso di problemi e arrovellamenti interiori le cui origini o motivazioni ci risultano sempre opache ma senza creare un mistero intrigante. Alla fine purtroppo non capiamo cosa differenzi Hole dagli altri detective.

Tutto il contrario invece di Rebecca Ferguson e della sua aiutante. Lei coadiuva l’indagine, ha un assurdo macchinario tra modernità e modernariato che si porta sempre appresso e con cui registra tutto (ma elabora anche dati), è bellissima e non teme di usare questa bellezza, e ad un certo punto è chiaro che ha anche una propria agenda, propri fini e obiettivi all’interno di questo caso. Contrariamente al protagonista, lei è un personaggio scritto e rappresentato bene, misterioso con fascino e ogni volta che è inquadrata si desidererebbe saperne di più, ma il film invece persegue un’altra strada.

È evidente che la storia originale dovesse essere più ricca e sfumata (basterebbero anche solo i piccoli dettagli da cui capiamo quanto Harry Hole sia appassionato di musica, senza che però quest’elemento sia mai messo a frutto) ma il film ne propone una versione troppo innocua e generica. Questo piccolo thriller ordinario in cui tutto si conclude con il più usuale degli scontri finali e in cui la morale di piccole persone che cercano di essere per bene in un mondo nero di violenza che piano piano contamina anche il loro cuore, ogni svolta e ogni carattere è così aderente all’immaginario che altri thriller e detective hanno formato da non sortire più nessun effetto.

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