L'uomo nel buio - Man In The Dark, la recensione

Il non vedente ma molto menante del primo film è tornato e questo sequel è decisamente all'altezza dell'originale

Critico e giornalista cinematografico


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L'uomo nel buio - Man In The Dark, la recensione

Il cinema americano di serie B, quello vero che non aspira ad essere cinema di serie A ma si trova molto a suo agio nei suoi confini e nelle sue regole con le quali sa divertirsi e divertire, non lo fanno più gli americani. O almeno quello migliore non lo fanno più gli americani, che da qualche anno preferiscono tentare in ogni modo di elevarlo e portarlo altrove (lo insegna bene la parabola dell’horror contemporaneo). Sono invece gli stranieri arrivati ad Hollywood i migliori a confezionarlo e lavorarci, quelli che dimostrano di amarlo e conoscerlo di più. Fede Alvarez aveva inventato Man in The Dark con Rodo Sayagues (suo sceneggiatore e sodale di fiducia fin dal famoso corto che lo rese famoso), l’aveva fatto dopo essere sbarcato a Hollywood con il suo eccezionale remake di La casa. Adesso scrive il sequel per farlo dirigere a Sayagues, trovando la stessa esatta miscela a parti inverse.

L’anziano berretto verde non vedente stavolta non è la minaccia che i protagonisti trovano in una casa da svaligiare. Stavolta è il protagonista, la home invasion la viviamo dal punto di vista suo e della figlia “adottiva”, braccata da qualcuno che non conosciamo ma che sembra conoscerla e che l’ha seguita. Da qui il genere fa il resto e si scrive da sé, storiaccia di vendetta che non può essere portata a termine andando dalla polizia a lamentarsi. Perché come tutti i veri film di serie B ha un’anima conservatrice e vigilantesca, anche questo cioè afferma che l’unica vera legge che conti non è quella dello stato, ma quella degli uomini, e che le regole da rispettare davvero sono quelle di onore, rispetto e onestà sentimentale. Poco importa chi vincerebbe la diatriba di L’uomo nel buio qualora questa fosse portata in tribunale (spoiler: non il protagonista), importa chi noi sappiamo essere una persona per bene.
Così la persona per bene intraprende un viaggio per massacrare tutti gli altri meno per bene di lui.

Rodo Sayagues è anche meno barocco di Fede Alvarez, si concede pochissimi virtuosismi e momenti in cui essere in primo piano (il più bello è un piano sequenza in cui la bambina si muove dentro la casa per nascondersi dai diversi uomini venuti a prenderla, come in modalità stealth di un videogioco). Ovviamente al centro c’è l’espediente di un uomo letale che non vede e le molte scene di azione e tensione, quando non coinvolgono la bambina (molto ben delineata per essere all’altezza del genere senza risultare implausibile), ruotano intorno al sonoro, al non vedere e a cambiare una situazione di svantaggio in una di vantaggio, come nei grandi western in cui lo scontro tra protagonista e villain è sempre fondato sulla creazione a sorpresa di un’azione a lui favorevole e sulle trovate (eccezionale per semplicità quella per scovare la dimora dei nemici).

Su tutto regna una capacità fuori dalla norma di creare la tensione giusta da mestierante, cioè non con elementi di scrittura ma con elementi di messa in scena, usando il buio della notte, nascondendo al momento giusto, svelando quando serve e calibrando le inquadrature in modo che la loro composizione metta sempre in relazione minaccia e vittima, rischio ed esito, protagonista e obiettivo. Cinema da guardare e non da ascoltare.

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