L’uomo che vendette la sua pelle, la recensione

L'uomo che vendette la sua pelle si destreggia a fatica in un complesso terreno politico e morale, riuscendo a regalare non tanto riflessioni ma un'interessante costruzione visiva

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L’uomo che vendette la sua pelle, la recensione

Di questi tempi la circolazione delle merci è molto più libera di quella umana, e ciò è vero soprattutto se nasci dalla parte sbagliata del mondo. Cosa può fare quindi un profugo siriano quale è Sam Ali (Yahya Mahayni) per riuscire a raggiungere a Bruxelles la donna che ama? Diventare lui stesso una merce, e una di lusso: un’opera d’arte vivente.

Parte da questo spunto semplicissimo e altrettanto intelligente L’uomo che vendette la sua pelle di Kaouther Ben Hania. La grottesca storia di Sam è, nello specifico, quella di un profugo che si fa tatuare un visto Schengen sulla schiena da un artista di fama internazionale per potersi dire libero: eppure proprio quella libertà che si conquista sulla carta (o meglio, sulla pelle) è infatti l’ennesima condanna ad essere proprietà di un Occidente avido, una condanna ad essere succube delle decisioni altrui. Sam, esposto nei musei come una statua, dovrà toccare il fondo per venire a patti con la sua identità.

È veramente complesso il substrato morale e politico su cui L’uomo che vendette la sua pelle poggia le sue basi. Muovendosi tra le infinite implicazioni tematiche che la condizione del profugo comporta e mischiandole con il controverso mondo dell’arte contemporanea (che forse solo The Square di Ruben Östlund, in tempi recenti, è riuscito a raccontare finemente) il film sceglie però di semplificarsi la vita fin troppo, arrivando alla fine a svuotarsi quasi completamente di ogni significato.

Il “problema” è in questo senso sia di contesto che di personaggi. Da una parte infatti le leggi che permettono la mercificazione di Sam sembrano surreali (e se non lo sono, ci si fa comunque parecchie domande sulla loro veridicità), e insieme a esse i media sembrano non esistere, nonostante vi sia un gruppo di attivisti siriani che combatte quel teatrino del dolore a cui il protagonista è costretto (tra l’altro anch’esso è presente solo in sottofondo, ogni tanto). E i media, in un film che mette in questione l’arte contemporanea, è fin troppo strano che siano assenti: tutto il discorso metaforico che ci si monta intorno non può, semplicemente, sembrare credibile. Soprattutto se, come fa L’uomo che vendette la sua pelle, si sceglie di raccontare questa storia attraverso una chiave realistica e non grottesca, diretta e non allusiva.

Dall’altra parte, si diceva, c’è un problema di personaggi. Sam è infatti raccontano soprattutto nel suo desiderio di riconciliazione con l’amata Abeer (Dea Liane), ma ciò che veramente pensa del sistema in cui è intrappolato rimane piuttosto oscuro, contraddittorio. La dipendenza da quel mondo, in fin dei conti, non sembra davvero dispiacergli come sembra. Il film è però totalmente convinto di stare raccontando il contrario. Contraddittorio lo è anche, allo stesso modo, il comportamento dell’artista (Koen De Bouw), di cui a volte si sottolinea la magnanimità, altre il nichilismo totale. Si tratta di un nodo che non viene mai risolto, e che mina non di poco l’intera credibilità e chiarezza del film.

Nonostante i gravi problemi narrativi e metaforici, va sicuramente dato merito a film del modo in cui trascina con interesse e senso del ritmo lo spettatore, trovando sempre situazioni e immagini su cui interrogarsi, con cui giocare. L’interprete principale Yahya Mahayni è in questo senso il centro essenziale e magnetico di ogni costruzione visiva: è solo a partire dal suo corpo, dalla sua presenza negli spazi (privati o museali) che Kaouther Ben Haniaci racconta veramente di identità rubate e distorte. Peccato che, alla fine dei conti, la storia faccia inesorabilmente cadere nel vuoto questo sforzo estetico.

Siete d’accordo con la nostra recensione di L'uomo che vendette la sua pelle? Scrivetelo nei commenti!

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