Lunana: Il villaggio alla fine del mondo, la recensione
Favola moderna dal cuore antico, Lunana: Il villaggio alla fine del mondo pur non servendosi di una diretta retorica ammonitrice non nasconde un chiaro intento moralizzante, intessendo un elogio innocente e deciso di un popolo puro e un luogo meraviglioso.
A Lunana, un villaggio a 4800 metri d’altitudine al confine tra Bhutan e Tibet, si trova la scuola più remota del mondo. Ci si arriva dopo 8 giorni di viaggio, non c’è energia elettrica ed è la terra dei pastori di yak. Niente di più distante - in tutti i sensi - da Ugyen (Sherab Dorji), un giovane insegnante svogliato della capitale che sogna di fare il cantante in Australia e che proprio a Lunana viene spedito per completare il suo mandato prima di potersene andare dal Paese. In quel luogo sperduto, neanche a dirlo, Ugyen si lascerà contagiare dalla bontà d’animo dei suoi abitanti, imparando a vivere secondo nuovi ritmi e trovando tra i pastori inaspettate melodie.
Di questi due aspetti non dubitiamo mai: tramite l’umanità che racconta, di bambini curiosi e adulti devoti (alla terra, agli yak e al maestro stesso, visto come un vero e proprio dono), e l’incanto delle maestose montagne che si sofferma ad osservare, il regista e autore Pawo Choyning Dorji crea uno scrigno emotivo e narrativo dove non solo il protagonista Ugyen ma anche chi guarda sente di immergersi pienamente e di volervisi immergere sempre di più. Di questo luogo, Lunana, dove tutti sono profondamente buoni e in cui tutti (se si lasciando andare) possono diventarlo, Pawo Choyning Dorji offre quindi una cartolina in piena regola, colma di buoni sentimenti ma che, tuttavia, fa mancare alla storia il conflitto che le serve per andare oltre il mero elogio e oltre l’edulcorata perfezione.
In questo piccolo mondo in cui le giornate si ripetono quasi sempre uguali, la meraviglia è assicurata perché, sembra dirci il film, non potrebbe essere altrimenti. Nell’affermare questa sua verità come dato di fatto, pur regalandoci una temporanea pace dei sensi, Pawo Choyning Dorji non va mai oltre tale affermazione, limitandosi a confermare nell’esposizione del mondo opposto (l’Occidente) l’irripetibilità di quella gioia ancestrale.
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