L'ultimo paradiso, la recensione

Nel suo desiderio di unire il reale e il simbolico, il passionale e il meditato, L'ultimo paradiso fa un'operazione logicamente chiara ma sentimentalmente inefficace

Critico e giornalista cinematografico


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La sua storia L’ultimo paradiso non vuole trovarla tanto nei dialoghi quanto nella recitazione, nella fotografia e nella capacità di generare momenti sospesi tra il duro realismo e un reame più aleatorio e trascendente, reso possibile dall’ambientazione campagnola e dagli eventi. Una volta tanto c’è uno spoiler da non fare in un film italiano ma quel che si può dire è che gli eventi molto canonici di questa storia d’amore contrastata nell’Italia meridionale degli anni ‘50 (fatta dei suoi archetipi: padri maneschi e padroni, donne ingabbiate per le quali l’amore è una forma di ribellione, gioghi ingiusti sulla vita economica dei contadini…) vengono ad un certo punto ribaltati da un evento inatteso che porta dentro un nuovo personaggio ancor più difficile da prevedere. Da lì in poi il film gioca proprio un’altra partita, fatta molto meno di intrecci sentimenti e criminali e molto più di rarefazione e allusione, come se la prima parte gettasse i presupposti e la seconda ne traesse dei simboli.

L’ultimo paradiso è insomma un film molto libero, da una parte batte percorsi che non vogliono rispondere a strutture note o alle solite scelte di casting (c’è ad esempio Gaia Bermani Amaral, modella dai tratti nordici, nel ruolo di una donna del sud degli anni ‘50), dall’altra si prende la libertà quando vuole di essere convenzionale e utilizzare situazioni e figure archetipe, specie della tradizione del cinema italiano. Nel complesso però più spesso che no il film non riesce a convincere della consistenza della sua storia, della furia dei sentimenti che causano decisioni estreme e dell’oppressione maschile sulle donne.

Non ci riesce perché l’amalgama di tradizionale e libero, di sentimentale e raffreddato non trova mai il suo equilibrio. C’è una storia d’amore funesta che raramente mostra la passionalità che invece la trama ci fa capire esserci (solo alla fine con una scena di bacio rubato che però arriva troppo tardi) e c’è poi un nuovo personaggio che entra a metà che porta invece un tono molto più meditabondo e distante ma non per questo meno partecipe. Lui è pensato proprio per essere un alieno, qualcuno che non appartiene più a quel contesto, ma la sua presenza nella storia e nel film sembra sempre avere giustificazioni più cerebrali che emotive o di partecipazione. Capiamo perché stia lì e che economia abbia nel racconto ma non partecipiamo mai a quello che dovrebbe portare nel sentito.

E non che sia recitato male L’ultimo paradiso. Anzi. Sia Riccardo Scamarcio (qui anche sceneggiatore e produttore) che Antonio Gerardi che poi una buonissima parte dei comprimari fanno un ottimo lavoro su quel misto indispensabile di adesione a figure archetipe e loro trasfigurazione in personaggi cinematografici. L’impressione è proprio che quel tono così complicato e così sofisticato che il film cerca con invidiabile libertà sia lontano. E quando nel finale c’è una concessione più forte che nel resto del film al simbolico, un momento che dovrebbe tirare diverse fila sia di senso che di sentimento, è ancora più forte la sensazione che le intenzioni di lavorare su un rimando molto astratto degli eventi trattati siano più forti della riuscita di questi rimandi.

Sei d'accordo con la recensione di L'ultimo paradiso? Scrivicelo nei commenti dopo averlo visto su Netflix dal 5 febbraio

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