[Roma 2013] L'ultima ruota del carro, la recensione
Il film più serio e ponderato di Veronesi non è certo la riflessione sull'Italia che vorrebbe essere, ma a sorpresa è il film più sincero, onesto e coinvolgente del regista toscano
Fino ad oggi Giovanni Veronesi è stato scrittore e poi regista di alcune delle commedie più pigre del nostro cinema. Spesso abbastanza divertenti, ancor più di frequente banali, quasi sempre di grandissimo incasso ma mai davvero capaci di fare umorismo un minimo ricercato o anche solo di usare la risata per far passare un'idea o un sentimento autentico (non roba stereotipica da cui è impossibile farsi colpire nel profondo). I film di Veronesi (quelli scritti per Pieraccioni, i manuali d'amore, Italians, Il mio west e via dicendo) sono molto amati ma spesso realizzati senza cura, cinematograficamente nulli, centrati sul performer della situazione e sbilanciati sulla scrittura e sulla recitazione come se gli altri comparti non esistessero o non fossero utili.
Fino ad oggi.
L'ultima ruota del carro, segna un cambio di rotta netto sebbene non radicale.
Mantenendo un approccio molto semplicistico, molto popolare e abbastanza piccino, il cinema di Veronesi si gonfia per la prima volta del vento dei film veri, quelli realizzati con un'idea precisa dietro, coordinando per davvero i vari comparti (montaggio, fotografia, scenografia, recitazione ecc. ecc.) verso un fine comune e di conseguenza trovando la via verso il cuore, che poi è quel che preme di più a questo melodramma mascherato da cinema storico.
Della storia degli ultimi 30 anni del nostro paese raccontata attraverso la vita di un uomo che più comune, buono e ingenuo non si può, c'è poco, fatti sparpagliati utili a segnare gli anni più che a costruire un percorso o addirittura trovare una lettura (omicidio Moro, vittoria ai mondiali, monetine tirate a Craxi ecc. ecc.). Quello che c'è e funziona di più nel film è l'umanità, esseri umani che vivono una vita cercando di barcamenarsi con tutte le banalità che una vita comune implica ma raccontate con la partecipazione che serve a rendere la narrazione coinvolgente.
Veronesi non fa mai mistero di cercare la lacrima, lo fa in più momenti e non sempre l'operazione è raffinata (spesso le tira via con mosse grossolane che risultano anche poco autentiche), tuttavia è innegabile che, complice l'energia instancabile e il temperamento drammatico di Elio Germano, il film trasporta il suo protagonista in una piccola epopea privata e comune, colma di benevolenza e buonismo che non risultano quasi mai gratuiti o deprecabili come in precedenza. E questa è la sorpresa più forte.
Nonostante un impegno nella messa in scena maggiore del solito (e i risultati si vedono), lo stile del regista è sempre evidente e proprio per questo sembra che le molte collaborazioni d'eccezione (dal già citato a Germano alla bravissima Virginia Raffaele, dalla fotografia di Fabio Cianchetti al montaggio del Marone della serie Romanzo Criminale) lascino emergere ad ampi tratti il meglio del suo approccio al cinema. Per la prima volta il semplicismo di Veronesi si trasforma nella dimensione più autentica dell'umanità.