Luke Cage (seconda stagione): la recensione

La recensione della seconda stagione di Luke Cage

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Spoiler Alert
La considerazione secondo cui le stagioni somigliano sempre più spesso a lunghi film divisi in puntate ha di solito un'accezione positiva. Stagioni come la seconda di Luke Cage ci mostrano invece il rovescio della medaglia implicito in quella considerazione. Se un classico arco narrativo trova il suo senso in un percorso che si esaurisce, di solito, in due ore, impiantare quella impostazione su una struttura immensamente più lunga significa diluire la portata drammatica degli eventi. E, nonostante la moltiplicazione degli snodi narrativi, il gioco rischia di stancare molto presto. È ciò che accade con la seconda stagione di Luke Cage: qualche spunto interessante, un finale tutt'altro che scontato, ma sono piccoli fari che ci accolgono al termine di un'estenuante traversata nel mare di Harlem.

Come avvenuto per la seconda stagione di Jessica Jones, anche gli eventi di Luke Cage si riagganciano idealmente ai temi e allo stile della prima stagione. Quel che è accaduto in Defenders ha un senso nel momento in cui sappiamo che Iron Fist farà la sua apparizione, prima o poi, e soprattutto nel fatto che Misty Knight dovrà imparare ad accettare la perdita di un braccio. Per il resto sono ancora le strade di Harlem le protagoniste, gialle del sole caldo che continuamente batte sulle case del quartiere, rosse solo la sera, illuminate dalle luci dei locali. Luke Cage tiene l'ordine come può, e per un certo periodo le cose sembrano andare molto bene. L'effetto complessivo è quello di Rocky III, con il campione ormai soddisfatto, una celebrità prima che un eroe. Si parla di campagne promozionali, di selfie, di manifestazioni pubbliche.

Naturalmente la presunzione precede la caduta, ed ecco che nel quartiere arriva Bushmaster, nuovo pericoloso nemico che sostituisce del tutto Diamondback come nemesi stagionale. Dietro le quinte si agita anche Mariah Dillard – o Stokes, la differenza viene spesso sottolineata – che vorrebbe tirarsi fuori dal giro della violenza e ricucire i rapporti con la figlia, ma al tempo stesso deve combattere la grande attrazione che l'ambiente criminale ancora esercita nei suoi confronti. L'arrivo di Bushmaster complicherà tutto ulteriormente. La presenza evanescente di Claire, voce della ragione per antonomasia, si esaurisce poi in poche puntate, con quella che sembrerebbe la conferma dell'addio di Rosario Dawson all'universo Marvel.

Forte di un approccio mai nemmeno messo in discussione, Luke Cage ripropone la consueta struttura da tredici puntate delle serie Marvel su Netflix. Nemmeno a dirlo, sono troppe. Le prime tre – e siamo già a tre ore – servono ad impostare i conflitti stagionali. Su tutti, ad esempio, il rapporto conflittuale di Luke con il padre James, interpretato dallo scomparso Reg E. Cathey. Con una struttura di questo tipo, impostare un conflitto significa mostrare almeno tre o quattro scene diverse che rimescolano continuamente temi, frasi, considerazioni già chiaramente delineate. Ogni possibile snodo viene spremuto all'inverosimile, finché la serie, e noi con lei, potremo passare ad un equilibrio successivo.

Fino all'ultima puntata, i personaggi si incontrano, si minacciano, si scontrano, cambiano alleanze, si ritirano, e poi si rifanno sotto. Non necessariamente in quest'ordine. Senza soluzione di continuità e senza equilibrio. Anzi, l'effetto contrario è proprio quello di una serie in cui i rapporti di azione e reazione esistono in funzione di una trama diluita, che spinge continuamente in là il momento della soddisfazione. La lunga attesa disinnesca ogni portata drammatica degli eventi e sottrae naturalezza all'evoluzione della storia. Luke Cage, inteso come personaggio, diventa allora questo strano oggetto di scrittura: di volta in volta gigante rabbioso, guardiano tormentato, schiaffeggiatore bonario (l'accoppiata con Iron Fist, per l'occasione molto più giovale e meno egocentrico, garantisce déjà-vu dalle scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill).

Il tutto accompagnato ad una certa artificiosità e povertà dei dialoghi, a interpretazioni non memorabili, a dei lunghi intermezzi musicali, che dovrebbero dare un certo mood alla storia e invece appesantiscono il tutto. A fronte di tanto rumore e di tantissimo tempo passato insieme a questi personaggi (i flashback su Bushmaster inseriti incredibilmente a due puntate dalla fine) ci rimane ben poco. Forse solo un finale, di rottura, che riprende palesemente il Padrino e che getta un'ombra di complessità su Luke. Ma è un po' poco.

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