Luigi Proietti detto Gigi, la recensione

Per una volta un documentario non ricostruisce la vita ma ambisce a ricostruire il segreto di una carriera eccezionale, scavare nei materiali e trovare connessioni

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Luigi Proietti detto Gigi, nei cinema dal 3 al 9 marzo

Non la vita di Gigi Proietti, ma la carriera di Gigi Proietti. Non tanto gli aneddoti divertenti sulla personalità, il dietro le quinte o gli affetti, ma i racconti di come lavorava Gigi Proietti. Il documentario che Edoardo Leo ha realizzato su Gigi Proietti è diverso. Per una volta un documentario non ricostruisce fatti e fatterelli di una vita per raccontare l’uomo, ma cerca di scavare nel mestiere e nelle pieghe del lavoro per capire il professionista. Nel caso specifico capire il segreto del successo e dell’influenza, la capacità di unire alto e basso, conquistare ampie platee ma anche rivoluzionare il teatro. E lo trova! O almeno trova una quantità di stimoli sufficienti per formare nella testa dello spettatore un’idea di Proietti autore e performer che tenga in equilibrio la parte sperimentale della sua carriera con quella più popolare.

Senza indugiare troppo in spezzoni e performance note (la tentazione, si capisce, è forte ma nonostante qualche sbrodolata non si sconfina mai nel montaggio da Teche Rai) Edoardo Leo, usando la propria voce narrante e non nascondendo di aver incrociato Gigi Proietti ad un certo punto della sua carriera, in una rappresentazione di Dramma della gelosia, esplora ogni snodo. La sua non è solo narrazione dei cambiamenti, delle epoche e di quello che comandavano, di come si era adattato a mezzi d’espressione diversi ma proprio il tentativo di guardare ogni volta come Proietti interpretava una certa forma di teatro o di cinema. Più in generale di performance.

Luigi Proietti detto Gigi, un resoconto unico e personale

Ne esce un resoconto al tempo stesso unico e personale, professionale per molti versi, ma anche capace di colmare diversi buchi tra gli eventi più noti (i problemi alla direzione del Brancaccio ad esempio). Certo rimane un’agiografia fatta di cuore (mancano ad esempio dettagli sul carattere duro e i non pochi difetti) ma tutto ciò che è meno noto di Proietti, dalla passione per Shakespeare al lavoro da regista, viene soppesato con egual interesse di ciò che è noto, per creare una figura complessa in cui la parte popolare si abbevera di quella di ricerca, in cui il successo presso il grande pubblico viene dritto da quello per pochi, di nicchia e dalle esperienze più estreme.

Alla fine la spiegazione risiede sempre nella personalità curiosa e capace di operazioni sincretiche in maniere estremamente naturali, che è una tesi semplice ma accurata (il documentario non mira mai ad essere davvero un’operazione intellettuale ma un crossover tra celebrazione e approfondimento) e forse un parterre di voci più eterogeneo avrebbe fatto bene, perché ci sono i nomi noti com’è logico, c’è chi ci ha lavorato ma, visto il tema, stona ad esempio il fatto che non ci siano voci autorevoli di teatro o di cinema, qualcuno che al pari di Leo invece di raccontare l’influenza che ha avuto Proietti su di sé ne potesse dare una visione critica.
Lo stesso per una volta siamo davanti ad un documentario biografico da cui si esce avendo compreso di più la grandezza del suo soggetto e non solo avendo empatizzato con la sua vita.

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