Luck, la recensione

Un viaggio nel mondo della fortuna e della sfortuna ricalca quello che la Pixar ha cambiato nell'animazione centrando solo i momenti cruciali

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Luck, in uscita il 5 agosto su Apple TV+

Facile dire che Luck non è un film d’animazione come gli altri sapendo che dietro c’è il più grande rivoluzionario dell’animazione americana degli ultimi 40 anni, John Lasseter. Ma è anche difficile fare finta che non sia così di fronte alla perfezione delle scene in cui Sam la protagonista mette alla prova la sua fortuna da poco acquisita o in cui Bob il gatto nero si muove facendo affidamento sulla propria. Gestione dei movimenti, dei tempi e dell’umorismo fisico e paradossale sono ai massimi livelli. Il miglior cinema muto. Luck è un film che non si può dire sia davvero scritto bene, ma è indubbiamente uno diretto con proprietà di linguaggio e di tempi, uno in cui tutto, anche quello che non funzionerebbe altrove, viene raddrizzato per funzionare e che soprattutto sa benissimo i momenti, i punti e gli snodi che non vanno sbagliati per nessuna ragione al mondo. E alla fine infatti non li sbaglierà.

Sam è sfortunatissima, non gliene va una giusta e proprio quando ha bisogno di un po’ di fortuna per una bambina bisognosa raccoglie un penny per strada, azione che nella superstizione americana porta fortuna. Quel penny tenuto con sé cambia la sua vita e la rende fortunatissima, fino a che non lo perde e non scopre che apparteneva ad un gatto nero che parla, uno dei molti agenti del mondo della fortuna che regola l’applicazione del caso nelle vite delle persone. Sam seguirà il gatto e viaggerà con lui tra il mondo della fortuna e quello della sfortuna per recuperare quel penny.

In questo film c’è tutto quello che la Pixar ha imposto al mondo. C’è il design dei personaggi, c’è una cura pazzesca dei movimenti e della recitazione dei movimenti (quella facciale invece non è a livello dei più alti standard moderni), c’è un luogo fantastico organizzato burocraticamente come un grande ufficio o una grande azienda (visto in Inside Out o Monsters & Co.), c’è un’umana che finisce in quel regno portando scompiglio (e ci sono anche gli inservienti con le tute isolanti che prelevano gli elementi indesiderati di Monsters & Co.). Senza contare che ci sono le ispirazioni nipponiche di Lasseter, come il gatto nero parlante che ha la grazia e le movenze del gatto di Kiki, consegne a domicilio.

Solo che la scrittura non riesce a gestire queste due ore piene di situazioni, scenari, personaggi e cambi di fronte. Troppo per mantenere ritmo e coerenza di tono senza avere dei fuoriclasse alla scrittura ma dovendosi accontentare di mestieranti guidati da una mano salda in produzione (Lasseter). Alla fine la morale è che gli sfortunati sono più inclusivi e vogliono bene a tutti, vivono in un mondo più onesto e schietto, mentre i fortunati sono degli snob che vivono in un mondo di regole e non tollerano eccezioni. Non proprio il massimo del sofisticato. Del resto anche il dettaglio più affascinante questo film lo preleva da Inside Out, cioè che abbiamo bisogno anche di ciò che solitamente cerchiamo di escludere dalla nostra vita. Ma inevitabilmente non avrà la medesima forza che aveva in quel film.

Come se ci fosse stata la forza per lavorare davvero solo su alcune scene, Luck è sopra la media quando si tratta di non far parlare le persone, quando inventa trovate sceniche che mettano in evidenza un mondo di sentimenti o una condizione umana, solo mettendo in scena azioni che chiunque può interpretare. Ed è sopra la media anche nell’ottimo finale, in cui tutti sembrano volersi bene realmente, come nell’animazione giapponese, e c’è l’idea di non aver evocato i soliti sentimenti che conosciamo e che tutti cercano ma la loro versione più intima e vera, prelevata dalle profondità dell’animo invece che grattata dalla superficie come fanno gli altri.

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