I giocattoli sono spesso l’alfa e l’omega dell’animazione, ne costituiscono il fine commerciale ultimo (la Disney) oppure ne sono lo spunto di partenza (l’animazione televisiva nipponica), negli ultimi anni sono anche una proprietà intellettuale che stimola produzioni di possibili franchise (
Transformers,
Lego…).
Trolls viene da una marca di bambole che esiste dal 1952, tra alti e bassi, e che la Dreamworks ha acquisito in blocco prima di far partire la produzione del film.
La notazione è importante nel momento in cui uno dei tratti più distintivi di questo film d’animazione è la consistenza e il materiale di cui paiono fatti i personaggi.
Tutto in
Trolls sembra fatto di stoffa o di lana, cioè del materiale dei giocattoli e delle bambole di pezza. Non sono personaggi ispirati ai giocattoli ma sono i giocattoli stessi. Un po’ come per i Lego, che vengono animati in una specie di stop motion digitalizzata pre farli sembrare più simili ai veri pezzi e veri pupazzetti, le bambole di
Trolls sono animate accorciando quanto più possibile la distanza tra oggetto reale e personaggio, cercando di replicarne l’illusione di consistenza tramite un effetto visivo. La vista a cui viene appaltato il senso del tatto.
E nonostante sia scritto e diretto da un team Dreamworks al 100%, da un misto di autori che hanno preso parte agli ultimi Shrek a Mostri contro Alieni e a Kung Fu Panda 3, Trolls sembra contaminato da un umorismo molto originale e conscio del ruolo del film, zuccheroso ma consapevole di esserlo senza complessi, innamorato dell’idea di mettere in scena folletti pieni di brillantina e mostri bruttissimi che sognano l’amore. Invece di credere realmente alla possibilità di personaggi simili questo film ci gioca, gioca cioè con i suoi villain, i Bergen, con il loro brutto, con il viscido, il mostruoso e il ripugnante, con il deforme e quindi, alla fine della fiera, con il diverso. Invece che raccontare la storia di un diverso che si integra, come fanno tutti, Trolls mette in scena dei diversi (non solo brutti ma anche scemi) e ci fa innamorare di loro piano piano. È la differenza che esiste tra sbandierare un opinione e fare dell’attivismo.
In questo film dall’estetica (e molti personaggi) gay-friendly, pieno anche di musiche non originali ma riarrangiate, pescate dalla fine degli anni ‘70 e dagli anni ‘80, in cui una principessa indefessa trova un eroe paranoico e complottista per recuperare e salvare uno dei loro simili dalle grinfie dei mostri, ad essere realmente messa in scena è la maniera in cui una ragazza cerca di far innamorare un ragazzo di sè. Tutto è paradossale, tutto è brutto e quando viene abbellito non diventa bello ma solo kitsch, con una coerenza che dà consistenza a quell’universo. La sorpresa è che a sprazzi emerge anche un onesto sentimentalismo tenero capace di offuscare tutto il marketing delle bambole, del politicamente corretto e dell’educativo per lasciare posto a
Cenerentola interpretata da due mostri adorabili.