Lucca 2018: L'Ultimo Sharknado, la recensione

Con un cast sempre più zeppo di attori e attrici una volta famosi e ora improponibili in qualsiasi produzione seria Sharknado 6 chiude i giochi

Critico e giornalista cinematografico


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Sharknado era nato come una delle mille produzioni Asylum a costo inesistente e presupposti che nessun altro avrebbe mai il coraggio di concepire (e per questo hanno un pubblico) ma col tempo e i sequel è diventata altro. È diventata uno schiaffo al cinema di serie A, la presa in giro dei franchise fatta con l’orgoglio e l’incapacità degli ultimi. Ora la sua chiusura è perfettamente in linea con tutto questo. Fieramente Sharknado non è mai migliorato, non ha mai investito sul proprio successo, perché l’obiettivo non è mai stato essere migliore.

Alla ricerca disperata di nuovi scenari Sharknado comincia a viaggiare nel tempo con la sbrigatività che lo caratterizza. La caratteristica più incredibile di questi film infatti è come tutto avvenga all’improvviso, senza essere annunciato, caricato, spiegato o senza che gli sia preparato il terreno: qualcuno guarda fuori dalla finestra e c’è un tornado di squali, si parte. Nell’episodio precedente già si erano giocati la carta di “Sharknado intorno al mondo” e avevano introdotto la macchina del tempo: ora tocca a Sharknado nella storia dell’uomo e si parte con l’approdo del primo viaggio, cioè la preistoria. Una dinamica trattata come poteva capitare in Superfantozzi (molte delle ere attraverso le quali viaggiano sono le stesse).

Sono però le medesime soluzioni di cui Hollywood abusa quando ha finito le idee ma non le possibilità di guadagno, e che qui si trasformano nella parodia di sé stesse. La sola differenza tra Sharknado e qualsiasi franchise stanco e svogliato (specie i peggiori tra quelli animati) è che in Sharknado non ci sono veli, tutto è esposto per quel che è non mascherato da trovata creativa. Quindi i mezzi per viaggiare sono i più stupidi e i modi in cui di volta in volta viene sgominato il tornado di squali di turno sono stanchi e sbrigativi (su tutti vincono le palle elettrificate dai fulmini, un gioiello di non-sense). Eppure l’umorismo è certificato e garantito dall’epica e dalla serietà profusa dagli attori. Non c’è quasi nemmeno una gag intenzionale in Sharknado, tutto è scritto per apparire serio mentre è appositamente ridicolo.

Ma ciò che impressiona più di tutto, ogni volta, è che questi film pessimi con poco ritmo e ambizioni di 10 livelli superiori ai mezzi e alle competenze, sono il trionfo di un universo di personalità marginali. Il primo Sharknado a differenza di molti film Asylum, aveva nomi “noti” cioè Ian Ziering di Beverly Hills 90210, Tara Reid (Il Grande Lebowski, American Pie), poi al secondo episodio si sarebbe unita Vivica Fox (Independence Day, Kill Bill), tutte star passate e masticate dal tempo e dall’industria, ridotte a nulla. Nei 6 capitoli della serie a loro sono stati affiancati personaggi della televisione, donne considerate ormai fuori forma per gli standard di Hollywood (qui c’è Tori Spelling), altre che hanno subito plastiche riuscite male e ex star di reality mai trasmessi al di fuori degli Stati Uniti. George R. R. Martin è forse l’unico nome attualmente di successo ad avervi partecipato e in questo ultimo vediamo anche Gary Busey (comparso già nel quarto film), in un cammeo in cui nemmeno parla, sta solo lì distrutto ad un bancone che finge entusiasmo.

È il mondo che sta ai margini di Hollywood, che vivacchia in virtù di una stagione da star (il povero Busey può vantare più di una stagione) e viene qui coinvolto nel peggio. Un mondo di corpi e volti sfatti e coatti, donne vestite sempre attillate e abbondanti, in evidenza e tirate a lucido senza gusto accanto a uomini che paiono essere venuti sul set con i vestiti propri (e forse è così). Di certo è cinema amatoriale e c’è poco altro da dire su di esso, tuttavia ci dice qualcosa di vero e onesto sulla società dello spettacolo americano di cui è comunque espressione, per quanto deteriore. Sharknado è diventata una saga a suo modo famosa e nel farlo ha puntato sempre il riflettore su tutti gli “scarti” dell’industria, i dimenticati, gli ultimi e i marginali.
Forse davvero più che una saga su squali presi da un tornado la possiamo considerare una saga sul lato che nessuno racconta (perché a nessuno interessa) di Hollywood.

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