Lucca 2017: Never Ending Man - Hayao Miyazaki, la recensione

Preso tra la voglia di creare qualcosa di nuovo e il timore di non farcela Never Ending Man - Hayao Miyazaki è il ritratto più sincero del dio degli anime

Critico e giornalista cinematografico


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Più annuncia il ritiro meno ci crediamo ormai. Hayao Miyazaki ha più volte sostenuto di voler smettere con l’animazione per poi regolarmente tornare a fare film. Never Ending Man - Hayao Miyazaki lo segue per diversi mesi, a casa, sul lavoro o nelle questioni ordinarie e nel farlo riesce a registrare esattamente i dubbi, i problemi, le questioni e i contrasti che si muovono dentro il re dell’animazione nipponica. L’obiettivo folle di riuscire a cogliere l’empasse tra il ritiro e il ritorno, è paradossalmente raggiunto, anche se con una fattura terribile.

Il documentario parte quasi dove finiva Il Regno dei Sogni e della Follia, con lo Studio Ghibli chiuso e i suoi tavoli da disegno deserti, e si chiuderà invece con le stesse stanze di nuovo attive.
In mezzo la lavorazione del cortometraggio sulla storia di un bruco che Miyazaki decide di fare ad un certo punto. Irrequieto e desideroso di produrre non riesce a stare a casa a disegnare piccole illustrazioni, vuole una sfida, vuole qualcosa di grande e di difficile. Quindi decide di realizzare in maniera ambiziosa (per lui) anche un corto, ovvero cedendo alla computer grafica, cosa che non ha mai fatto in tutta la carriera. Seguiamo la sua fatica nell’adattarsi a quel mezzo, le resistenze, i cedimenti al disegno a mano e i test con tavolette grafiche.

Tuttavia la cosa più interessante di questo documentario dai contenuti impeccabili ma dalla realizzazione di intollerabile approssimazione (inquadrato quasi sempre male e montato malissimo), è come per Miyazaki la voglia di ritirarsi nasca da limiti fisici, dal fatto che non riesca a dare tutto nel disegno senza risentirne fisicamente, e come invece il desiderio di tornare sia prenda in lui la forma di un’insopprimibile voglia di creare qualcosa di unico e necessariamente meraviglioso. Addirittura riusciamo a vedere il lato più brusco e duro del maestro, come pretenda tantissimo dai collaboratori e come sappia anche essere sprezzante nella ricerca dell’eccellenza. In un momento di sincerità egli stesso ammetterà di non essere riuscito a lasciare un erede o un’eredità nel mondo dell’animazione perché nel Ghibli inevitabilmente ha finito per schiacciare tutti.

Assume così un senso quasi liberatorio il fatto che nel finale il vero fil rouge del documentario (la paura, data l’età, di morire in mezzo alla lavorazione di un corto o di un lungo) arrivi alla più estrema delle soluzioni, cioè che non solo non può costituire un problema, ma anche che in fondo sia molto meglio morire lavorando ad un film animato che morire non facendo niente a casa. E forse in questo, nell’unione tra l’etica del lavoro nipponica e un’insanabile sete di creazione che lo spinge a disegnare a tutti i costi, sta il ritratto più sincero di Hayao Miyazaki.

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