Lubo, la recensione | Festival di Venezia
Lubo funziona decisamente molto di più come un film d’esplorazione di una specifica realtà storica che che come ritratto appassionato e/o emozionante di un personaggio.
La recensione di Lubo, presentato in Concorso al Festival di Venezia 2023
Tale è il destino che in Lubo tocca ai tre figli di Lubo Moser (Franz Rogowski), un artista di strada Jenisch che da quando viene arruolato nell’esercito elvetico nel 1939 seguiamo nel suo lungo percorso di tentato ricongiungimento familiare, in quella che diventa un’esplorazione sotto falsa identità e dagli intenti ambigui della società elvetica del tempo.
Il motivo per cui Diritti ci tenga sempre nascosta la più importante attività del personaggio - un’attività che potremmo definire d’inchiesta, attuata in prima persona - è abbastanza inspiegabile, dato che lungo tutto il film vediamo Lubo sì trasformarsi, cambiare e fuggire, ma di fatto quello che accade è veramente poco ed è spalmato in un tempo decisamente lungo (tre ore) dove questa atmosfera di mistero regge piuttosto faticosamente la prova dell’attenzione.
La cosa invece migliore di Lubo è anche quella che distingue spesso i film di Diritti, ovvero la perizia con cui viene messa in scena una realtà storica attraverso le scenografie, i costumi, gli abiti, facendoci immergere totalmente in tale ambientazione.
Franz Rogowski fatica a dare un’interpretazione intensa proprio per i limiti narrativi del suo personaggio, a metà - almeno sulla carta - tra un supposto Don Giovanni dal fascino ombroso e un uomo disperatamente desideroso di ricostruire un nucleo familiare. Mai pienamente nessuno dei due, Lubo rimane un personaggio poco interessante e, di conseguenza, il film è un quadro storico sì immerso ma privo di una reale lettura dei fatti che vada oltre una generica denuncia (e che, infatti, Diritti sente di voler ribadire con un testo-spiegazione finale).