Los Colonos, la recensione

Esordio di un promettente regista cileno, Los Colonos è un grande "anti-western" che attacca frontalmente la storia insanguinata del paese.

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La recensione di Los Colonos, il nuovo film diretto da Felipe Gálvez Haberle, in arrivo al cinema dal 7 marzo.

Che esordio quello di Felipe Gálvez Haberle. Il cileno classe ‘83, con alle spalle solo due cortometraggi e pochi lavori da sceneggiatore e montatore, gira con la maestria di un veterano un affascinante ibrido di cinema di genere e cinema d’autore. Formalmente stupendo, austero e rigoroso (con una fotografia dipinta ad olio dell’italiano Simone D’Arcangelo) Los Colonos è un western latinoamericano che usa il genere e il suo immaginario come osservatorio privilegiato per un discorso politico al vetriolo sull’eradicazione dei popoli nativi. La lezione del western revisionista americano – Liberty Valance di Ford su tutti – e italiano (Leone e Morricone continuamente evocati) è piegata alle esigenze di un affresco storico a tinte nerissime sulla nascita del Cile moderno. Lo sguardo in macchina che chiude il film resterà fra i momenti più devastanti e memorabili di questo 2024 cinematografico.

Los Colonos può essere letto come un saggio sullo sguardo, inteso come memoria e testimonianza storica, diviso abbastanza nettamente in due parti. Nella prima un ragazzo per metà Indio (Camilo Arancibia) viene reclutato da due soldati per “ripulire” dai nativi le terre di un ricco proprietario terriero (Alfredo Castro). Una strage che ricorda le odissee sanguinarie dei romanzi di Cormac McCarthy; ma a differenza del protagonista muto di Meridiano di sangue (1985) il nostro giovane non rimane indifferente alle violenze: riflette, tenta coraggiosamente di resistere, e soprattutto guarda.

Quello sguardo sarà tradito e pervertito nella seconda parte, che racconta come le autorità cilene di inizio ‘900 abbiano aperto trattative coi nativi per ripulire la coscienza storica del paese (“la lana macchiata di sangue”). Se tanto western a partire dagli anni ‘60 ha raccontato gli orrori del colonialismo, pochi hanno affrontato questo aspetto: la conciliazione, che scaricando i crimini sui militari e lavando le mani dei governi ha suggellato l’eradicazione e assimilazione delle culture native all’interno dei nascenti stati “moderni”. Paradossalmente questa seconda parte incruenta e piena di discorsi edificanti riesce ad essere ancor più terrificante dei massacri della prima.

La fotografia di D’Arcangelo, degna del grande Gordon Willis, ammanta le stanze del potere di un’oscurità gravida di senso politico. E Haberle racconta spietatamente come gli stati costruiscano la messa in scena di una verità ufficiale comoda. Non è il primo film cileno degli ultimi anni a farlo: qualche anno fa Blanco en Blanco di Théo Court (2019) aveva detto cose molto simili raccontando la storia di un fotografo di matrimoni incaricato di comporre le foto-trofeo dei massacri di nativi Selk'nam. Qui c’è una scena quasi uguale, ma ancora più perversa perchè obbliga persone vive e vegete a mettersi in posa per le menzogne dei libri di storia. Non a caso entrambi i film vedono la presenza del grande Alfredo Castro, che anche grazie al lavoro con Pablo Larraìn è attore simbolo di un cinema cileno contemporaneo politicamente graffiante, impegnato a setacciare i lati più oscuri della storia del paese.

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