Loro 2, la recensione

Loro 2 chiude la parabola dell'ultimo Berlusconi rivelando la sua vera natura di film sul declino di un potente che non lo accetta, visto con un'umanità inedita

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Paolo Sorrentino è l’unico, tra chi ha affrontato il personaggio o la mitologia di Silvio Berlusconi, ad aver avuto il coraggio di andare fino in fondo. Invece che trattarlo con la distanza e il senso del giudizio che si riserva ai personaggi reali quando finiscono in film di finzione, l’ha trattato come un personaggio di finzione, partecipando ai suoi drammi e schierandosi, nonostante tutto, dalla sua parte. Loro 2 completa Loro 1, e alla fine abbiamo ben chiaro che questo filmone in due parti non fa finta di non avere posizioni. Gli errori, le incongruenze, i crimini, le malefatte e gli atteggiamenti ridicoli a Berlusconi sono rinfacciati tutti, in un elenco fattogli da tanti personaggi diversi e con un fare così didascalico da sembrare quasi forzato, da sembrare un passaggio obbligato che va sbrigato in fratta come un elenco doveroso. Questioni enunciate ma non affrontate, perché al film interessa il dramma personale e umano del personaggio. Quel che c'è da chiedersi alla fine, una volta visti entrambe le parti del film, non è quanto dei veri eventi è narrato, ma che lettura dia questo film di quegli eventi lì. Cosa l'occhio di un regista e la penna di uno sceneggiatore abbiano visto di interessante negli ultimi anni di Silvio Berlusconi.

Quella di Loro, che era partita come la storia di un periodo storico in cui in Italia il connubio tra sesso e politica è arrivato a vertici inusitati, è in realtà la storia di un uomo incredibilmente vitale che per questo ha conquistato tanto e che, come in Youth, è al tramonto di una vita larghissima. Silvio cerca di lottare contro l’invecchiamento e la perdita di quella stessa vitalità con cui lui identifica se stesso. E questa è la parte pazzesca di un film con un'anima forte e umanissima, che tra alti e bassi alla fine scava una nicchia nello spettatore, non per l'attenzione all'attualità o per il commento alla politica, ma per la partecipazione evidente di Sorrentino e Contarello agli abissi che mettono in scena: la paura di scomparire, il terrore di una vita di memorie e basta, la fine della parte vitale dell'esistenza.

Come Rocky, nell’ora della sconfitta, Berlusconi torna alle origini, cerca gli occhi della tigre nelle vendite al telefono che Sorrentino usa come Scorsese le usava in The Wolf Of Wall Street (solo uno dei molti momenti in cui questo film guarda a quell’altro), per mostrare la grinta inesauribile del persuasore, il miele e l’elettricità della vendita come cocaina della vita. Qualcosa che, sembra pensare Berlusocni, deve essere per forza l'opposto della morte. È una scena bellissima, che mostra ancora di più quanto questo regista riesca a fare con il registro del grottesco, che corde tocchi usando il ridicolo. Già Silvio che prende l’elenco del telefono e digita un numero a caso è comico, il resto oscillerà tra la risata e l’eccitazione. Saremo con lui e il suo desiderio di dimostrare a se stesso di essere ancora quello di una volta. E lo siamo anche se per idee o simpatie non lo saremmo in qualsiasi altra contingenza.

Questo potente potentissimo che non accetta il declino, e proprio per questa ragione si perde (paradossalmente tornando però ai vertici), che non chiama Mike Bongiorno, l’amico di una vita, perché Mike ha solo ricordi dietro di sé e lui vuole invece avere un futuro davanti a sé, è un piccolo mostro dentro il quale Sorrentino e Contarello entrano come in Manhunter, con una totale immedesimazione con l’oggetto della caccia. I due capiscono così tanto Berlusconi da essere partecipi del suo desiderio di non morire dentro, di non essere vecchio, di continuare a piacere, continuare a essere il proprio mito, di esagerare con donne e feste per scacciare il declino. Nel loro Berlusconi c'è una pulsione così forte verso la vitalità che è impossibile non condividerla, la lotta umanissima per non tramontare personalmente in un uomo che identifica il personale con il pubblico. Questa lotta egoista distrugge senza remore e senza empatia tutto quello che è intorno a lui: Veronica, Mike, gli amici, i politici e tutta la corte di miracoli che con le feste sperava di svoltare nella vita.

E proprio qui c’è l’ultimo grande tentativo, quello più fallimentare, di un film che alterna (come troppo spesso capita a Sorrentino) il sublime con il raccogliticcio, l’elevato e riuscito con il posticcio e il puerile. Come già in Il Divo, Sorrentino ha l’ambizione di demistificare una figura gigante su cui esiste già una chiara mitologia. Di Andreotti voleva cancellare l’idea di uomo intelligentissimo e al suo posto fondare una mitologia vampiresca e ombrosa. Con Berlusconi vuole cancellare la sua narrazione, quella del grande imprenditore vincente, e creare quella del gaudente e vitale, del venditore ovvero “l’uomo più solo del mondo perché parla sempre, senza ascoltare” (come gli dice Ennio Doris, interpretato sempre da Servillo in un’idea geniale di moltiplicazione di Berlusconi nei suoi collaboratori) infelice anche se finalmente al governo.

Lo si capirà nello showdown finale con Veronica, il momento culminante del film che tuttavia è anche il più diretto e sfacciato di un’opera che invece in più punti sa essere sottile e realmente umana.

Continua a leggere su BadTaste