Looper, la recensione

L'acclamato thriller sci-fi di Rian Johnson mescola con abilità i piani cronologici e, soprattutto, le menti dello spettatore, ma dove vuole andare a parare esattamente?

Condividi

Ammirando i poco rassicuranti paesaggi urbani di Looper, in maniera abbastanza analoga a quanto accadeva con I Figli degli Uomini di Alfonso Cuaròn, viene quasi naturale rimpiangere quella fantascienza più barocca, se non addirittura escapista, fatta di progresso senza fine, macchine volanti e chissà quale altra meravigliosa amenità tecnologica.

La pellicola di Rian Johnson ci proietta in uno scenario futuro non molto dissimile da quello attuale, fatto di un aspro contrasto fra ricchezza e povertà estrema, in cui la possibilità di viaggiare nel tempo, oltre a essere illegale, è esclusivo appannaggio di organizzazioni criminali. Lo scopo non è il più nobile visto che si tratta di eliminare i vari killer prezzolati, o meglio i vari Looper che, da giovani, avevano stabilito con la mala un accordo che avrebbe portato loro ricchezza smodata, ma anche una data di scadenza tanto precisa quanto ignota. Pare complicato, ma in realtà si tratta di un meccanismo molto semplice: lo scopo dei Looper è quello di eliminare le varie persone che vengono spedite dal futuro, facendosi trovare in un dato luogo a una data ora ben precisi. Carnefice e vittima non devono avere nessun contatto. La ricompensa per ogni uccisione sono i lingotti d'argento legati alla schiena di ciascun “viaggiatore”. Ma per ogni Looper arriva il giorno in cui il “premio” è tanto più prezioso quanto aberrante e sconvolgente. Se il cadavere ha dell'oro al posto dell'argento vuol dire che il Looper del presente ha appena fatto fuori il sé stesso del futuro, arrivato ormai alla fine del proprio contratto.

Tutto questo si traduce nella sostanziale impossibilità di costruire una vita e degli affetti. A che serve avere una compagna, dei figli, quando sai che un giorno qualcuno deciderà che è giunta – prematuramente – la tua ora? Questo meccanismo va incontro a qualche problema quando a incontrarsi saranno Joseph Gordon-Levitt e Bruce Willis, le due facce, a età differenti, del medesimo Looper.

L'ultimo lavoro di Rian Johnson, che arriva in Italia distribuita dalla Buena Vista International, ha consegnato al trentanovenne regista statunitense quell'accoppiata di consenso critico e successo commerciale che risulta sempre particolarmente gradita, specie se, come in questo caso, il budget realizzativo del film non tocca cifre esorbitanti. 30 milioni di dollari di budget e 166 milioni di box office world wide sono un bel risultato per questo filmmaker che si era già fatto apprezzare per la sua opera d'esordio, Brick (sempre interpretato da Joseph Gordon-Levitt), e per il successivo The Brothers Bloom (ancora inedito nel nostro paese).

Lo stile di regia adottato da Johnson, considerato il tema – la sfida fra determinismo e libero arbirtio – e il setting – un futuro che pare una plausibile degenerazione del nostro presente – agisce per sottrazione e non indulge in una sterile spettacolarità, in una roboante prosopopea che sarebbero risultate inadatte. Questo non significa che il regista non dimostri, in alcuni passaggi, di saper orchestrare delle scene tanto barocche quanto credibili – come nella sequenza che c'illustra l'invecchiamento del Joe Simmons di Gordon-Levitt/Willis. Stilisticamente, Looper è algido, quasi “matematico” nello schematismo impeccabile del design e della struttura narrativa e proprio per questo, a prescindere dai rimandi presenti o presunti con Inception – il plot a spirale attraversato in entrambe le pellicole da Joseph Gordon-Levitt – la sensazione di “freddezza nolaniana” è palpabile.

A convincere ci sono poi le interpretazioni di Gordon-Levitt e Willis. Malgrado la diffidenza iniziale del vedere il protagonista di 500 Days of Summer e quello di Die Hard alle prese con il medesimo personaggio – diffidenza dovuta più che altro a timori collegati al make-up – devo ammettere che sono entrambi estremamente credibili nei panni di un Joe Simmons a età differenti e che il trucco prostetico è ben fatto. Come ogni buona pellicola basata su paradossi spazio temporali, Looper riesce a “svicolare” con un breve “momento spiegone” le eventuali obiezioni dell'immancabile spettatore col ditino alzato che sarà presente nella sala cinematografica, seduto a chissà quale distanza dal posto che occupate. Il problema maggiore di questa opera che, lo dico subito a scanso di equivoci, merita di essere vista e rivista per essere assimilata del tutto, è che forse la posizione del Rian Johnson regista/sceneggiatore non pare essere ben chiara. Come vi ho detto prima, ma questo dato s'intuisce facilmente già dalla semplice trama del lungometraggio, le aspirazioni sono alte, come nella fantascienza di serie A. 

C'è il monito relativo al dove stiamo andando, al dove stiamo conducendo un pianeta sempre più fortemente diviso fra un'oligarchia di ultraricchi e una massa sterminata di nullatenenti. Una strada che tanto nella realtà quanto nella fiction pare ormai essere a senso unico.

C'è la riflessione su quanto nelle nostre vite sia già stato determinato e su quanta libertà di manovra ognuno di noi abbia nello scrivere in totale autonomia il “libro della vita”.

C'è Bruce Willis che spara e ammazza criminali come sa fare solo lui, cosa che, da sola, potrebbe garantire una piena promozione al film.

Last but not least, Johnson trova anche il tempo di citare uno dei più seminali capolavori che il fumetto e l'animazione giapponesi abbiano mai regalato al mondo intero (non cito il titolo in questione perché sarebbe uno spoiler davvero eccessivo e gratuito, anche se il suo "sentore" è percepibile fin dalle prime battute del film).

Il problema principale risiede però nel fatto che una volta arrivati alla fine della pellicola potrebbero nascere domande sullo scopo ultimo che Rian Johnson vuole perseguire con Looper. E' un thriller sci-fi con aspirazioni più alte, elevate? O, viceversa, una profonda riflessione sul libero arbitrio resa più digeribile grazie a tutti quegli elementi tipici della fantascienza più o meno distopica? La risposta potrebbe, appunto, non essere univoca. Questa serpeggiante ambiguità interpretativa è tipica di quei film che non sono destinati a una fugace e distratta visione, ma che meritano, appunto, di essere assaporati più di una volta per essere compresi appieno. Il rischio, però, è che malgrado le reiterate visioni, i ripetuti assaggi, il sapore che rimane nel palato possa finire per essere sempre quello di un piatto riuscito solo a metà.

Continua a leggere su BadTaste