Lone Survivor, la recensione
Peter Berg si riscatta dal fallimento commerciale di Battleship con un film riuscito che rifugge dal militarismo e dal gingoismo più sterili...
Lo dico subito, tanto per mettere le cose in chiaro.
Una boiata colossale – anche se fra noi addetti al settore fa più scena dire “E' uno dei miei più grandi guilty pleasure!” - ma se un regista ha il buon cuore di farmi vedere un blockbusterone da 200 milioni di dollari in cui ci sono non una, ma ben due canzoni degli AC/DC nella soundtrack e una corazzata in disuso comandata da un marinaio estremamente cazzone e una ciurma di arzilli veterani della Seconda Guerra Mondiale che effettua una DERAPATA nel bel mezzo dell'oceano durante una battaglia contro un'armata di alieni, è normale che il Dom Toretto nascosto dentro di me cominci a scalpitare freneticamente, andando a occultare sotto una canotta bianca anni e anni di studi classici.
Con Lone Survivor Peter Berg – che è bene ricordarlo è una proverbiale vecchia volpe del business cinematografico/televisivo e ha una notevolissima versatilità – cambia, solo apparentemente, registro rispetto a Battleship. Budget irrisorio per gli standard dell'industria (si parla di una cifra compresa fra i 40 e i 50 milioni di dollari), un ristretto manipolo di star in mezzo alle quali ritroviamo anche il Taylor Kitsch di Friday Night Lights e del toy movie di quasi due anni fa e, soprattutto, una storia vera alla base di tutto.
La vicenda raccontata dal lungometraggio – con le proverbiali “drammatizzazioni” di cui trovate puntuale resoconto su Wikipedia – è tratta da quanto scritto dal Navy SEAL Marcus Luttrell e dal ghost writer inglese Patrick Robinson nel libro Lone Survivor: The Eyewitness Account of Operation Redwing and the Lost Heroes of Seal Team 10 circa l'operazione Red Wings con la quale l'esercito americano voleva eliminare il leader talebano Ahmad Shah.
Ma nel trasporre sul grande schermo la storia di un fallimento, Berg effettua una scelta drastica, funzionale, coraggiosa, intuibile già dai titoli di testa – in cui ci viene fatto vedere il vero addestramento dei NAVY Seal. Imposta la narrazione circoscrivendo buona parte della pellicola ai – pochi – momenti pre-agguato, alla battaglia disperata dei Seal contro i talebani e al salvataggio di Luttrell. E il registro simile a Battleship si riscontra nel momento in cui il regista si approccia alla vicenda evitando di andare a caratterizzare specificamente i personaggi, quasi accennati, appena tratteggiati. Si ha nel profondo rispetto verso il concetto di brotherhood, di fratellanza. I Seal non brillano per le loro doti personali. Sono dei ragazzi americani qualunque e non sono le loro qualità come singoli a contare, ma quelle della loro identità collettiva.
Temevo un'eccessiva iniezione di patriottismo spicciolo, ma, a pensarci bene, Berg è lo stesso regista di The Kingdom, un action non banale in materia di “guerra al terrore” e quindi il pericoloso scivolone sul terreno del militarismo all american fine a sé stesso è sventato. Con le immagini e i gesti, più che con per parole. Con l'insistere su un concetto di “codice d'onore” che, come potrete constatare, non tocca solo gli americani.
L'unica concessione che viene fatta all'attualità, alla deriva sociologica allargata si ha nel momento in cui i SEAL si domandano cosa fare con gli afghani che si sono casualmente imbattuti con loro. Un dibattito in cui si discute di regole d'ingaggio, notiziari della CNN e ipotesi strategiche sul come organizzarsi per l'eventuale rappresaglia che certamente nascerebbe dopo la “liberazione” dei pastori.
Penso che il non esaminare in maniera profonda le varie implicazioni che l'intervento militare statunitense (e non solo) in alcune regioni del globo non sia un atto di vigliaccheria. Semplicemente Peter Berg non è Oliver Stone. Affermazione che non va letta in senso negativo, ma come pura e semplice constatazione di una differenza d'interessi. Berg non vuole mettere su piazza i panni sporchi d'America, non vuole plasmare o plagiare le menti di un pubblico, specie internazionale, che probabilmente ha già delle idee ben precise in materia che di sicuro non verranno mutate dalla visione di Lone Surviror.
Vuole trasmettere rispetto sincero. Non retorico, non noioso. Magari naïf come a volte riescono a essere solo gli statunitensi, per carità. Ma chi aspetta questa pellicola con la spada già sfoderata per lanciarsi in un “j'accuse” tanto banale quanto sterile dovrà rassegnarsi, anche di fronte alla “cronaca dei fatti” affidata alle foto e alle didascalie finali, in cui ci viene detto che...
Il regista/sceneggiatore evita le trappole del gingoismo e si concentra, dunque, su altro. Su una concezione quasi “intima”.
Poi è ovvio. Berg, che con la macchina da presa ci sa fare e anche piuttosto bene, ci trascina direttamente nel mezzo della battaglia con delle sequenze crude, incisive, lancinanti per come insistono sul martirio dei corpi. Ma non c'è quell'eccitazione ai limiti della vera e propria pulsione erotica che un Michael Bay ha nel momento in cui va a riprendere dei Marine o degli elicotteri Apache come se fossero gli equivalenti “family oriented” di una pornostar.