The Lone Ranger, la recensione

Progetto rischioso fin dall'inizio, The Lone Ranger è solo parzialmente riuscito pur proponendo grande intrattenimento e immagini splendide...

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Che The Lone Ranger fosse un progetto molto rischioso si sapeva fin dal principio: un film che, senza Johnny Depp, non sarebbe stato fatto, basato su un personaggio radio/televisivo popolare ma quasi dimenticato (il Ranger Solitario), impostato su un genere che ormai al cinema vediamo sempre meno (il Western), girato rigorosamente in pellicola nel deserto con costose ricostruzioni e sfidando caldo e intemperie, con l'ambizione di lanciare un franchise.

L'approccio del produttore Jerry Bruckheimer e del regista Gore Verbinski è stato quello che dieci anni fa ha portato al successo Pirati dei Caraibi, ovvero trascendere il genere (quello piratesco era tra i più sfortunati della storia del cinema) e realizzare un grande film d'avventura. Anche nel caso di The Lone Ranger non ci troviamo davanti al classico Western, quanto a un film d'avventura ambientato nel vecchio west e che del western riprende alcuni meccanismi ma ne sovverte altri.

Il risultato è solo parzialmente riuscito, e principalmente per un motivo che rende questo progetto molto diverso da quello di Pirati dei Carabi: l'indecisione sul tono. The Lone Ranger ha dalla sua una storia molto compatta che regge la durata (altra cosa davvero rischiosa) di due ore e mezza, due protagonisti solidi con motivazioni evidenziate fin dall'inizio, e soprattutto un comparto tecnico davvero straordinario. Ma ha un grosso problema: non è chiaro quale tono voglia assumere, e questo problema viene esemplificato perfettamente dalla cornice narrativa nel quale Verbinski ha deciso di inquadrare la storia. Il film inizia negli anni trenta del secolo scorso (peraltro con un riferimento al circo che ricorda Il Grande e Potente Oz), con un bambino che visita una attrazione dedicata al West. In una delle ricostruzioni, il manichino di un anziano indiano prende vita e inizia a parlargli: è Tonto (Johnny Depp), che gli racconta le origini della sua amicizia con Lone Ranger, il Ranger Solitario (Armie Hammer). Se questa "cornice" si fosse limitata all'inizio e alla fine del film potrebbe anche aver avuto senso, ma purtroppo Verbinski interrompe regolarmente la narrazione per mostrarci il bambino che interloquisce con Tonto. Perché questa scelta? Per avere dare un appiglio di identificazione al pubblico dei più giovani in un film che propone da una parte scene di efferata violenza, un messaggio sulla corruzione della politica, dell'esercito e dello stesso capitalismo (valori sui quali gli Stati Uniti sono stati costruiti) e un sottotesto paranormale che non viene per nulla approfondito, e dall'altra parte grande azione e avventura, romanticismo e parecchia comicità.

Spiace questa discontinuità perché elementi potenzialmente problematici come la figura di Tonto (il timore era quello di trovare un Johnny Depp sopra le righe) o di Red Harrington (Helena Bonham Carter, stesso timore) invece funzionano bene, e il cast in generale è molto riuscito (esclusa l'insipida Ruth Wilson), con un plauso in particolare per il terrificante William Fichtner. Il comparto tecnico, si diceva, è poi gestito alla perfezione: le riprese nel deserto conferiscono al film un look autentico, mentre sul piano della fotografia Verbinski non si smentisce mai (tornando qui a collaborare con Bojan Bazelli, suo direttore della fotografia in The Ring). Più sottotono Hans Zimmer, che tuttavia scandisce perfettamente (pur riprendendo un tema notissimo) la colossale e un po' inverosimile sequenza finale sui due treni.

E proprio la ferrovia sembra essere la vera protagonista del film: Verbinski è riuscito a rendere l'importanza dell'unificazione delle due coste attraverso le rotaie, e non è un caso che praticamente tutte le spettacolari scene d'azione si svolgano sui treni. Forse è proprio grazie a questo filo conduttore che The Lone Ranger finisce per essere, nonostante tutto, così compatto.

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