Londra 2014 - Fury, la recensione

Colpisce allo stomaco e al cuore il cruento Fury, odissea di cinque uomini in un carro armato Sherman a ridosso della fine della Seconda Guerra Mondiale

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"Gli ideali sono pacifici; la storia è violenta."

Questa la lezione di vita che il sergente Don "Wardaddy" Collier (Brad Pitt) impartisce al quasi imberbe assistente pilota Norman Ellison (Logan Lerman), durante la loro missione nel carro armato Fury. Il contesto è quello della Germania del '45, a ridosso della fine della Seconda Guerra Mondiale ma ancora agitata dagli ultimi, strenui tentativi di resistenza da parte dei nazisti. Fury e altri cingolati Sherman tagliano il paese, lasciandosi dietro una scia di morte. Perché, anche se le sorti del conflitto sono ormai chiare, non c'è spazio per la pietà.

Assieme a Don e Norman, nella claustrofobica tana di metallo, ci sono il prepotente Grady "Coon-Ass" Travis (Jon Bernthal), il sensibile Boyd "Bible" Swan (Shia La Boeuf) e lo scanzonato Trini "Gordo" Garcia (Michael Peña). Se gli ultimi tre, sotto la guida di Wardaddy, sono ormai abituati alla cruda realtà della guerra, il giovane Norman (soprannominato poi dai compagni "Machine") sembra respingerla con tutte le sue forze, non riuscendo a uccidere se non dopo una violenta iniziazione a opera di Don. La perdita dell'innocenza coincide tuttavia con l'inizio di un avvicinamento - non senza traumi e contrasti - tra Norman e i suoi compagni, a formare una bizzarra famiglia che resta unita anche di fronte ai momenti più disperati.

In una situazione, quella bellica, in cui ogni umana compassione sembra essere destinata a sparire, Norman conserva un'intima nobiltà d'animo che gli impedisce di indulgere in gesti di insensata violenza. Il premio di questo atteggiamento arriva tramite alcuni inaspettati, forse melensi ma significativi gesti di solidarietà della parte avversa, del nemico combattuto senza pietà. Fury non è infatti un film sull'orrore nazista, tutt'altro: offre una visione ruvida e sgradevole della disumanizzazione delle forze alleate, a prescindere dall'indole soggettiva più o meno brutale, in una sorta di livella mostruosa che unisce tutti nella corsa al massacro. La varietà dei membri di quest'orgia sanguinosa è messa in risalto dalle splendide performance di tutto il cast, assortito in modo perfetto e immedesimatosi nei ruoli con verosimiglianza impressionante.

Brad Pitt è bravissimo nel regalare allo spettatore un personaggio a tutto tondo, schiavo del ruolo di leader che deve ricoprire presso i suoi sottoposti ma assediato da fantasmi interiori che riemergono in forma variabile e angosciosa durante il film. Applausi su applausi meriterebbe Shia La Boeuf, che col suo ritratto del riflessivo, a tratti spirituale Boyd "Bible" Swan - l'accostamento al cigno è semplice ma adeguato - tocca vette interpretative tra le più alte della sua carriera. Non manca di sorprendere anche il giovanissimo Logan Lerman, che dimostra di essere attore duttile e molto espressivo, scrollandosi di dosso qualsiasi imbarazzante retaggio di Percy Jackson o, peggio, del dimenticabile Noah aronofskiano. Anche Michael Peña e Jon Bernthal non sono da meno, in due ruoli che riescono a staccarsi ben presto dal rischio macchiettistico che alcune situazioni avrebbero potuto rappresentare; la paura e il rimorso rendono entrambi tridimensionali e veri, arricchendoli di una profondità che è una boccata di ossigeno per il pubblico abituato ai cliché.

C'è una grande classicità tematica, in questo Fury: a dispetto dei corpi brutalmente spappolati dal passaggio dei cingolati e degli arti saltati per le mine (impeccabili gli effetti speciali e visivi), il film raccoglie l'eredità dei grandi racconti di guerra cui il cinema ci ha abituati, smaltandoli con una vernice rosso sangue di realismo contemporaneo. Ma la formazione dei protagonisti rimane quella tradizionale: il leader paterno ma autoritario, il giovane che deve imparare a vivere, il filosofo, il buontempone, la potenziale serpe in seno. Limitandosi a guardare l'idea di base, non offrirebbe poi molti motivi di interesse; eppure, grazie a scelte di casting quantomai azzeccate e a una regia che sceglie di immergersi - e immergere il pubblico - nel fango dei terreni fatti d'argilla e carne decomposta, Fury spicca il volo e scende in picchiata, colpendo allo stomaco senza soluzione di continuità.

In quest'ottica, per una volta, il fango non sporca ma lava via la putredine, in un processo di catarsi che pervade un classico racconto di guerra di un'aura che emana luce nuova e vivida.

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