London Film Festival - Beautiful Boy, la recensione

Presentato al London Film Festival, Beautiful Boy di Felix Van Groeningen convince con sincerità senza però mai spiccare davvero il volo

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La definizione "film d'interpretazioni" è, nella sua semplicistica superficialità, la definizione più immediata che Beautiful Boy del belga Felix Van Groeningen possa trovarsi cucita addosso. Basato sulle memorie di David e Nic Sheff, il film - presentato recentemente al London Film Festival - non si adagia però mollemente sulle straordinarie performance attoriali offerte dai suoi ispirati protagonisti, Steve CarellTimothée Chalamet; con misurata sapienza, si mantiene equidistante dalle due figure, scongiurando il rischio di far prevalere l'una piuttosto che l'altra.

La storia - vera - è semplice: il giornalista David, interpretato da Carell, deve fare i conti con la dipendenza da droghe del figlio Nic, studente modello che ha il volto di Chalamet. Pur non riservando al pubblico alcun colpo di scena, Beautiful Boy riesce a salvarsi dal rischio di precipitare nella mielosità predicatrice da pubblicità progresso, consentendo allo spettatore di simpatizzare sia con David che con l'instabile Nic. Viene quasi spontaneo chiedersi se, di fronte a un ragazzo meno intelligente, meno avvenente, meno educato, avremmo provato lo stesso grado di empatia; dubbio fine a se stesso, poiché questi, solo questi, nient'altro che questi sono gli eroi tragici di cui il film ci parla.

Al film di Van Groeningen non interessa allargare lo sguardo, includendo la tragedia di Nic in un panorama più ampio che coinvolga le centinaia di migliaia di giovani che, ogni anno, muoiono a causa del consumo di oppiacei; l'occhio del regista è concentrato sulle peculiarità dei propri personaggi, e il dramma della tossicodipendenza è pivotale al punto di non consentire alcuna dolorosa distrazione (neppure le ingenti ripercussioni economiche dello stato di Nic sembrano causare una reale preoccupazione in David).

Registicamente parlando, l'estetica di Beautiful Boy alterna il lirismo degli assolati paesaggi californiani in cui David e Nic vivono i loro giorni migliori al sudicio, raggelante squallore degli ambienti in cui il ragazzo si muove nella sua odissea tossica. Ad acuire il contrasto c'è l'azzeccata scelta di casting di Chalamet che, a prescindere dalla sua ormai indiscutibile caratura d'attore, conserva in volto la purezza dei lineamenti infantili, incorniciati da riccioli cesellati che gli conferiscono l'iconico fascino di un angelo caduto.

Forse l'intuizione migliore di Beautiful Boy sta nel fatto che, pur approfondendo i propri personaggi e riuscendo a dar loro una tridimensionalità inesistente nella maggioranza di racconti di dipendenza, resiste alla tentazione di spiegare troppo. Non ci viene fornita alcuna comoda motivazione per il consumo di droghe da parte di Nic; quello che ci viene mostrato è uno stillicidio tanto più atroce quanto meno razionalizzabile. Di fronte all'assurda autodistruzione del suo bellissimo ragazzo, David non trova pace e vaga alla disperata ricerca di una soluzione che sembra mutare continuamente forma, fino a diventare del tutto inafferrabile.

Proprio a questo si deve il senso di ristagno interno al film, che pare talvolta avvilupparsi in una matassa che, a ogni giro, è uguale a se stessa: le ricadute di Nic, i tentativi da parte di David di capire quel figlio adoratissimo che non riconosce più, tutto sembra percorrere con straziante ripetitività un solco sempre più profondo, da cui è impossibile riemergere. Sta qui l'originalità di Beautiful Boy che, seppur non assurgendo mai al rango di capolavoro, colpisce al cuore lo spettatore mostrandogli come l'amore, a volte, non sia la chiave della salvezza; peggio ancora, suggerisce che non esista una definitiva risposta al dolore, lasciandoci sull'orlo dell'abisso senza il conforto della catarsi.

Un buon film, dunque, che non tenta mai davvero di spiccare il volo verso cieli più alti rispetto a quelli in cui ha scelto prudentemente di muoversi; tutto ciò che lo spinge verso vertici insperati risiede al di fuori della sceneggiatura e porta la firma di Carell e Chalamet, ma la sua misurata sensibilità nel ritrarre i due protagonisti garantisce all'opera una commovente sincerità e, di conseguenza, una solida ed efficace verosimiglianza. Non brillerà per innovazione, ma graffia dolente negli stessi punti in cui molti film sul medesimo argomento si sono finora limitati ad accarezzare.

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