L'ombra del giorno, la recensione

Sul canovaccio di Casablanca Giuseppe Piccioni innesta il racconto tradizionale che facciamo del fascismo, tra provincia e conformismo che frustra l'amore

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di L'ombra del giorno, in uscita al cinema giovedì 24

Italian Casablanca.
In un luogo inusuale e caratteristico, Ascoli, in un ristorante gestito da un uomo con un passato d’azione e un presente ignavo, uno che segue l’onda del fascismo non per convinzione ma perché non vuole problemi, arriva una donna che chiede di lavorare, è un’ebrea che si nasconde sotto falso nome. Viene presa e nasce una storia d’amore che verrà troncata dall’arrivo dell’ex marito di lei, francese, in fuga dai fascisti e bisognoso d’aiuto. Il gestore del ristorante dovrà scegliere tra la propria convenienza e aiutare la sua amata a scappare con un altro uomo. A conferma dell’amore del film per il suo modello ci sarà anche una scena di canto.

Sul canovaccio eterno del film di Curtiz viene applicato il filtro della lettura italiana dell’epoca fascista. L’ombra del giorno non è un melodramma noir ma un film drammatico, e la storia quindi si concentra non tanto suoi ruoli che uomini e donne hanno e nemmeno sulla resistenza, cioè sul senso di ribellione e la lotta per un principio, quanto sull’amore frustrato, l’identità della protagonista e la metafora dell’uomo che guarda il mondo attraverso un vetro, chiuso in una bolla protetta che però lo esclude anche dalla vita vera. Facilissimo scorgere in questo la dicotomia tra guardare e vivere, nella cornice in 16:9 della vetrina del ristorante (Piccioni fa vedere al suo protagonista anche degli spettacoli in quel rettangolo, balli e azione) ma sono più accenni velleitari che vero senso, riflessi pavloviani da retorica del cinema e non reale affermazione del potere o del fascino della rappresentazione.
In realtà quella è la porta d’ingresso per un classico che il nostro cinema non si stufa mai di raccontare, il chiudersi ai sentimenti per paura di essere feriti e così rinunciare a vivere. Con in più un contesto che, a differenza della multietnica e brulicante Casablanca, è invece la provincia italiana più conformista e borghese, che cancella ogni asperità e si rifiuta di vedere che tutto sta crollando.

È il racconto classico degli anni del fascismo italiano, in cui la miseria umana che contagia tutti, la paura attanaglia e trasforma persone per bene in delatori, amici in nemici, vicini in minaccia. La sofferenza nel vedere che qualcosa può sconvolgere l’incrollabile convivialità del piccolo centro e l’equilibrio di mutuo soccorso. E in questo senso anche l’emblema del fascismo è il gerarca viscido e mellifluo (sempre centratissimo Lino Musella, l’unico a cui è consentito recitare con un po’ di vita e anche questa volta è perfetto).
Forse proprio per questo, proprio perché al centro c’è la provincia e il microcosmo di un ristorante, questo film di Giuseppe Piccioni sembra calcato sul cinema di Pupi Avati, con i suoi bozzetti e il canto dei piccoli gruppi umani, dei rapporti semplici e delle decisioni intense prese guardando lontano. Per fortuna però è realizzato con una mano migliore.

L’ombra del giorno è infatti un film più equilibrato, misurato e ben gestito di quel che si poteva temere (il genere, tradizionalmente, non è che brilli di fulgidi esempi) e se la scelta di far recitare il cast con un‘aria funerea, trattenendo tutto il trattenibile perché il clima dell’epoca impedisce di poter essere come si è, dire quel che si pensa, interagire come si vorrebbe, non sempre è funzionale, è indubbio che Riccardo Scamarcio sia efficacissimo nel trasformare quest’aria trattenuta in una tensione vera (molto meno invece Benedetta Porcaroli che non riesce a sfumare a sufficienza e passa lungo tutto il film da un estremo all'altro). La tensione tra il desiderio e le mani legate, tra i blocchi personali, le paure e l’orgoglio ferito e poi un sentimento impossibile da ingabbiare.

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